C’è qualcosa di quasi religioso, messianico, nell’hype che circonda l’Intelligenza Artificiale Generativa. I titoli sui giornali parlano di “rivoluzione”, gli influencer tech su LinkedIn si masturbano mentalmente con thread infiniti su prompt engineering, mentre gli investitori riversano miliardi in startup che spesso non hanno nemmeno un’idea chiara di cosa stiano costruendo. Siamo nel pieno della bolla dell’Hype-as-a-Service, dove la Generative AI viene venduta come soluzione miracolosa a problemi mal definiti, e il problema vero — l’inconsistenza strutturale del sistema economico e cognitivo che la promuove — rimane fuori dalla conversazione.

Hai presente quando negli anni ’90 bastava mettere “.com” dopo il nome di un’azienda per raccogliere milioni? O quando bastava “blockchainizzare” un business plan per farlo lievitare come un soufflé mal cotto? Bene, oggi basta dire “GenAI-powered” e magicamente sei al centro di pitch meeting con gente che non ha mai scritto una riga di codice. Questa è la distopia dell’automazione venduta come panacea.

Cominciamo con il mito più amato dai titolisti pigri: “l’AI ci ruberà il lavoro”. Lo raccontano come se HAL 9000 fosse pronto a licenziare i middle manager via Slack. In realtà, la ricerca della Federal Reserve di Chicago smonta l’isteria: il lavoro lo perdi più facilmente per colpa di un ciclo economico in calo o di un CEO incapace che taglia il personale per alzare l’EBITDA trimestrale. Ma accusare l’AI fa più clic, e non ti obbliga a parlare di macroeconomia o politiche salariali stagnanti.

Poi c’è l’idea geniale — ovviamente made in Gartner — secondo cui le aziende stanno diventando più efficienti grazie alla GenAI. Peccato che la stessa Gartner ci dice che il 70% dei progetti AI fallisce miseramente. L’efficienza, questa creatura mitologica, viene sempre sbandierata ma mai dimostrata. In realtà, la GenAI sta trasformando l’IT aziendale in un carnevale di demo, PoC inutili e dashboard che nessuno guarda. È la “consulting economy” che festeggia, non la bottom line.

E mentre parliamo di aziende, chiariamolo: GenAI non è “enterprise-ready”. Basta aprire MIT Sloan per leggere l’ovvio: tassi di errore ancora inaccettabili, hallucination croniche e assenza di accountability. Se affidassi un processo critico a un LLM, faresti prima a giocartelo a dadi. Eppure le aziende ci cascano, sedotte da demo preparate come lo spettacolo di magia per bambini: tutto funziona solo finché non alzi il sipario.

E i consulenti? Ah, i consulenti. La vera intelligenza artificiale è la loro capacità di reinventarsi ogni 5 anni con nuove buzzword. L’Harvard Business Review conferma che la maggior parte ha iniziato a lavorare con l’AI “ieri” e lo fa con metodologie più datate di un floppy disk. Ma i PowerPoint sono patinati, quindi va tutto bene, no?

La narrativa degli “early adopter” si sta sgonfiando come un NFT di fine 2022. McKinsey lo ammette: 80% dei CEO ha rimpianto di aver fatto il passo più lungo della gamba. Inseguire la GenAI senza strategia è come comprarsi una Tesla solo per fare colpo sull’amante. Bello all’inizio, ma poi ti ritrovi a chiederti come cavolo cambiare le gomme.

E veniamo agli agenti AI, questi software “autonomi” che dovrebbero rivoluzionare il lavoro. Secondo MIT CSAIL, sono solo vecchi script con un nome figo. Il vecchio RPA con un lifting semantico. Di reale non hanno nulla, se non la capacità di alimentare cicli infiniti di funding.

La Generative AI come dono all’umanità? Una barzelletta. Oxford Economics segnala un aumento dell’apatia cognitiva, una dipendenza da scorciatoie mentali che rende le persone meno curiose, meno critiche, meno umane. Il vero trionfo dell’AI sarebbe spingere l’uomo a pensare di più, non a pensare di meno. Ma no, meglio generare slide, articoli, mail, perfino sentimenti. Siamo alla subappaltazione dell’identità.

Ma aspetta, c’è anche il business vero, dicono. PitchBook smonta la retorica: l’85% delle startup AI non è profittevole. Sorprese? Nessuna. Si reggono su investimenti infiniti, alimentati da FOMO e boardroom che scambiano burn rate per trazione. È il capitalismo della promessa, versione Python 3.0.

E poi c’è l’assurda difesa del closed-source. Secondo Forbes, chi adotta soluzioni chiuse si ritrova prigioniero in contratti rigidi, con costi crescenti e innovazione frenata. Ma certo, spiegalo al CIO che ha firmato l’accordo con la Big Tech di turno solo per “non restare indietro”. Mentre il mondo open cresce del 30% all’anno, i clienti enterprise rimangono intrappolati come in un matrimonio senza divorzio.

Ah, e i bambini? Tranquilli: la GenAI li renderà geniali! Solo che NIH e American Academy of Pediatrics ci ricordano che l’esposizione precoce all’AI danneggia lo sviluppo cognitivo e sociale. Ma vuoi mettere un bambino che gioca con ChatGPT invece che con altri esseri umani? La distopia perfetta, direttamente dall’App Store.

Serve un cambio di rotta. Serve tornare al principio fondamentale: la tecnologia non è mai neutra. È specchio e moltiplicatore delle intenzioni umane. E oggi, le intenzioni dominanti sono l’ansia, la speculazione e il culto della velocità.

Non serve più AI. Serve più lucidità. Ma quella, purtroppo, non la puoi promptare. Inatnto leggiti:


MIT CSAIL – “AI Agents: Real or Just Hype?”
MIT’s CSAIL debunks the concept of AI “agents” as just a rebranding of older technologies with no new value added.
EdTech Magazine – “AI in Education: An Overhyped Solution?”
Research from EdTech Magazine shows that AI in education has not significantly improved learning outcomes or critical thinking.
Oxford Economics – “Cognitive Decline and AI’s Impact.”
Oxford Economics warns about AI’s potential to contribute to cognitive decline, reducing intellectual engagement and creativity.
PitchBook – “AI Startups: A Financial Mirage?”
PitchBook reports that 85% of AI startups are unprofitable, with little to no path toward sustainable business models.
Forbes – “Why Closed-Source AI Hurts Innovation.”
Forbes discusses how closed-source AI systems lock businesses into costly, long-term vendor relationships, stifling innovation.
American Academy of Pediatrics & NIH – “Impact of Technology on Children’s Development.”