La chiamano “We Make Future“, ma è sempre più chiaro che il futuro, qui, non si limita a essere fatto: viene impacchettato, sponsorizzato, venduto al dettaglio e servito con tanto di DJ set e droni volanti. Dal 4 al 6 giugno, Bologna Fiere si trasforma nel centro gravitazionale dell’innovazione globale, con il ritorno del WMF, un evento che, per portata e ambizione, ha ormai superato la definizione di “fiera”. È un bazar postmoderno dove l’intelligenza artificiale, la tecnologia e il digitale si mescolano al business, allo spettacolo e all’ego dei suoi protagonisti. Benvenuti nel tempio della keyword “innovazione”, in compagnia delle sue ancelle semantiche: “AI” e “startup”.

Lo scenario, già surreale di per sé, è quello di un villaggio globale in salsa emiliana. La Regione Emilia-Romagna fa da anfitrione con il suo Tecnopolo e il supercomputer Leonardo – una di quelle infrastrutture che ti fanno sembrare futuristico anche se vendi lambrusco. In questo setting, il WMF si propone come una AI Factory a cielo aperto, un terreno fertile per l’intersezione tra cervelli, capitali e chiacchiere ben confezionate.

E parlando di cervelli, la line-up degli speaker è una specie di dream team dell’innovazione: Federico Faggin, l’uomo che ha creato il microchip e ora gioca con la coscienza come fosse un plugin. John Wesley di Nvidia, che arriva nel bel mezzo del boom AI come un profeta silenzioso di CUDA. Luc Julia, il co-creatore di Siri, perfetto per raccontarci come una voce su uno smartphone abbia iniziato a decidere cosa cuciniamo la sera. C’è anche Enrico Mentana, per dare il giusto tocco italico tra news, neural network e nostalgie televisive.

Ma non è finita qui. Perché il WMF non si accontenta di pensatori. Chiama a raccolta tutto ciò che ha un minimo di hype: TikTok, Google, SoftBank, Microsoft, Netflix. La creme de la creme della digital economy, quella che decide cosa guardiamo, dove investiamo e perfino come pensiamo. Ogni azienda ha il suo stand, ogni startup il suo pitch, ogni venture capitalist il suo radar acceso. E tutti hanno la stessa domanda nella testa: dove butto il prossimo milione?

Nel caos (solo apparente) dei 90 palchi, si susseguono più di 1000 speaker, un numero che fa pensare più a un rave intellettuale che a una conferenza. Il paradosso è che mentre si parla di AI che ottimizza, si crea l’evento meno ottimizzato della storia: un labirinto di talk, panel, verticali, side event, perfetti per perdersi e ritrovarsi con una nuova idea, una nuova app o, più probabilmente, una nuova ansia tecnologica.

Naturalmente, c’è spazio anche per le startup, che sono la nuova droga del capitalismo post-ideologico. Delegazioni da 43 paesi, pitch a raffica, fondi pronti a investire nel prossimo unicorno… o nel prossimo clone di ChatGPT con un nome da serie Netflix. Nessuno vuole perdere il treno dell’AI. Anche se non si sa bene dove stia andando.

In mezzo a tutto questo, WMF si concede un’anima pop. Non manca l’intrattenimento, perché l’innovazione, si sa, è una cosa seria… finché non entra in scena l’uomo volante. E mentre si gioca a Drone Soccer o si sfidano eSporters internazionali, la fiera si trasforma in un festival. Il WMF Music Fest chiude il cerchio con una line-up che incrocia mainstream e indie, algoritmo e cassa dritta. Dardust, BigMama, Sarah Toscano, Turbopaolo e La Rappresentante di Lista: chi ha detto che l’AI non ha ritmo?

Curiosamente, in questo carnevale del futuro, la tecnologia è ovunque ma anche un po’ invisibile. È nella scenografia, nei badge, nei QR code, nelle AI che generano speech motivazionali migliori dei relatori stessi. È nell’aria, come il Wi-Fi, ma non si fa mai troppo concreta. Perché al WMF non si viene per capire come funziona l’innovazione, ma per farsi vedere mentre la si applaude. È l’equivalente digitale del “c’ero anch’io”, solo che invece della Woodstock del ’69, qui si tratta del talk sulla sostenibilità dei data center.

La verità, sotto la patina luminosa di LED e sigle altisonanti, è che il WMF è un termometro culturale del nostro tempo. Una macchina narrativa che ci dice dove sta andando il mondo, o meglio dove vorremmo che andasse. Si parla di futuro, ma si consuma presente. Si invoca l’impatto sociale, ma si contano i follower. È il grande show del possibile, dove tutto è pitching, branding e vision. E se qualcosa non funziona? Nessun problema, ci penserà l’AI. O un DJ.

E in fondo, va bene così. Perché tra un algoritmo che compone sinfonie e uno startup founder con le occhiaie digitali, Bologna diventa per tre giorni la capitale di una religione post-industriale. Dove si prega il dio della Disruption, si brinda con il networking e si sacrifica la noia sull’altare dello storytelling.

“Oh, ci vediamo là eh. Anche se non capisci niente di AI, c’è il food truck gourmet e Mentana che twitta.”

E tu che fai, resti offline?