Altman e Sundar Pichai stanno giocando una partita a scacchi dove ogni pedina costa centinaia di milioni e ogni mossa è una guerra di percezione. Ma mentre Google sfoggia muscoli computazionali e modelli AI da Nobel della fisica, OpenAI preferisce colpire al fegato con eleganza chirurgica: design, hype, visione. E ora anche con hardware.
Sì, hai letto bene. Sam Altman ha appena comprato il cuore pulsante del design industriale di Jony Ive o almeno la sua divisione hardware, “io”. Un’acquisizione da 6,5 miliardi di dollari in equity. Non in contanti, no. Equity. Perché siamo in Silicon Valley, non a Wall Street. E il messaggio subliminale non potrebbe essere più chiaro: la vera ricchezza non è nei bilanci, è nella narrativa.
Il tempismo è stato sublime. L’anno scorso OpenAI ha rubato la scena al Google I/O con l’annuncio di ChatGPT Voice, la versione AI del walkie-talkie di Dio. Quest’anno ha atteso un giorno dopo l’evento di Mountain View per lanciare la bomba: l’unione sacrilega di Sam “Il Visionario” Altman e Jony “Il Minimalista” Ive. Come dire: bravi ragazzi, ma ora si parla di cose serie.
E Google? Ha mostrato i muscoli con Gemini ovunque: ricerca, Gmail, Workspace, YouTube. Ha srotolato Project Astra, un occhio AI semi-onnipresente, e il video model Veo che ti fa un trailer da Oscar partendo da un prompt scritto col pollice. Ma nell’era post-smartphone non vince chi ha il modello migliore. Vince chi plasma l’immaginario. E su quel fronte, Altman ha già vinto.
Perché OpenAI non sta costruendo solo prodotti. Sta costruendo culto. Altman, il CEO che sembra uscito da un episodio di Black Mirror, ha capito che il futuro dell’intelligenza artificiale non è software o hardware: è esperienza. Un continuum cognitivo-emozionale che ti segue al polso, ti sussurra all’orecchio e ti anticipa i pensieri.
Ecco perché nasce “io”, la nuova costola di LoveFrom, assemblata come un Apple clandestino ma libero dai vincoli di Cupertino. Ive ha lasciato Apple nel 2022, chiudendo un consulting da decine di milioni per poter progettare liberamente. Ora si rimette in gioco non per rifare l’iPhone, ma per distruggere il concetto stesso di telefono.
Sì, perché “io” è il cavallo di Troia con cui OpenAI punta a spodestare Google e Apple dal dominio dell’interfaccia. Un device indossabile, grande come un iPod Shuffle, da portare al collo o poggiare sulla scrivania. Un AI-familiar che parla, ascolta, ricorda, suggerisce. Altman ne ha già portato a casa un prototipo. Sembra più un amuleto magico che un gadget.
Ma il colpo grosso sarà il bundle: hardware AI-first + abbonamento ChatGPT Plus = ecosistema chiuso, ma sexy. L’obiettivo non è vendere milioni di pezzi, almeno non subito. È dissolvere la dipendenza da Apple e Google per la distribuzione. È creare un mercato parallelo dove l’interfaccia non è uno schermo, ma una presenza.
E mentre Ive si prepara a sfornare l’anti-iPhone spirituale, Altman lo protegge con un’armatura di equity, hiring mirato (Evans Hankey, Tang Tan, Scott Cannon) e un reparto product guidato da Peter Welinder, il vero architetto dietro la UX di ChatGPT. LoveFrom continuerà a lavorare per OpenAI, in esclusiva. Tutto il resto – Ferrari elettrica inclusa – è secondario.
Google, per ora, sembra tranquilla. Gemini si espande, il search AI si allarga, le demo fanno impressione. Ma sotto il cofano, l’ossessione è reale. I numeri veri di search non li raccontano nemmeno internamente. Perché ogni query persa verso ChatGPT è una fessura nel loro castello di pubblicità e dati personali. E OpenAI non vuole competere. Vuole sostituire.
In questa dinamica da Guerra Fredda tra modelli, API e wearable AI, quello che conta non è solo la tecnologia. È chi controlla il frame mentale del futuro. OpenAI ha il controllo dell’immaginario. Google ha la scala e la potenza. Ma il pubblico non sogna con la scala. Sogna con la narrazione.
Il mondo non aspettava un nuovo smartphone. Aspettava un nuovo modo di comunicare con la macchina. E quel modo potrebbe venire da “io”. Un oggetto piccolo, silenzioso, invisibile, ma che pensa con te, per te, prima di te.
Come diceva McLuhan, “il medium è il messaggio”. Altman e Ive lo sanno bene. Google lo sta imparando adesso. Ma potrebbe essere già tardi.