Ti sei mai chiesto dove finisca davvero la conoscenza? Non quella che usi tutti i giorni, ma quella sedimentata nei secoli, nei bit, nei backup, nei dischi che girano ancora in qualche data center surriscaldato della Virginia o della Cina. Spoiler: non finisce da nessuna parte. Si disintegra lentamente, silenziosamente, senza fare rumore. L’oblio, nel 2025, non è più una conseguenza. È una feature.
Il paradosso è grottesco: viviamo nell’era dell’iper-memorizzazione, della datafication totale di ogni respiro, parola, occhiata. Ogni like, ogni email, ogni passo tracciato da un accelerometro dentro il nostro smartwatch è registrato. Eppure, la conservazione del sapere – quello vero, quello che forma civiltà, non feed – è più fragile di quanto fosse su una tavoletta d’argilla del 2000 a.C.
L’illusione del “per sempre” digitale è una truffa di sistema. Ci abbiamo creduto quando abbiamo iniziato a riversare archivi, enciclopedie, biblioteche, interi cervelli collettivi su supporti digitali. Salvataggi su floppy, poi CD, poi hard disk, poi cloud, poi su blockchain per i feticisti della permanenza distribuita. Il tutto con l’arroganza tecnologica tipica di chi confonde la copia con la conservazione.
I formati muoiono. I codec si estinguono. I software diventano archeologia binaria. Ci sono interi dataset accademici che oggi nessuno può leggere perché il programma per aprirli è morto insieme a una licenza o a un sistema operativo defunto. NASA stessa – mica l’ufficio IT del tuo Comune – si è trovata con centinaia di nastri del programma Apollo inutilizzabili. Mancava la macchina per leggerli. Illeggibili, inaccessibili, inutili. Come tenere un manoscritto antico in una cassaforte e dimenticare il codice.
E attenzione: la questione non è (solo) tecnica, è epistemologica. Perché decidere cosa salvare significa decidere cosa vale. E se lasciamo che a decidere sia il mercato – come sta già facendo – allora salveremo solo ciò che è monetizzabile, cliccabile, sexy. La ricerca umanistica, le lingue morte, le culture marginali, le idee radicali? Troppo pesanti da conservare, troppo poco convenienti da migrare.
Nel frattempo, le università si arrabattano. Il Knora di Basilea cerca di costruire un’infrastruttura per i dati umanistici del futuro. L’Olive Project di Carnegie Mellon prova a emulare software defunti in VM necrofile. La Internet Archive combatte con le case editrici per difendere il diritto a ricordare. Ma sono resistenze eroiche in un deserto che cresce.
E il punto è che tutto questo ha già un precedente: la Biblioteca di Alessandria, bruciata non una ma mille volte nella nostra coscienza storica. Perché non impariamo? Perché l’informazione non è sapere, e archiviare non è comprendere. O forse, perché a livello collettivo ci piace dimenticare. Il vero trauma della civiltà non è la perdita, è l’indifferenza alla perdita.
I finanziamenti per l’archiviazione sono briciole. I professionisti dell’informazione – archivisti, bibliotecari, documentalisti – sono trattati come tecnici di retrobottega. Eppure, sono loro gli ultimi custodi. I loro strumenti? Formati standard come il TEI, piani di gestione dei dati imposti da agenzie federali americane, routine di backup settimanali. Ma è una guerra contro l’entropia, e l’entropia ha tutta l’eternità dalla sua parte.
La quantità di dati raddoppia ogni due anni, dice IDC. Ma la capacità di salvare qualcosa che abbia senso – e non solo rumore – resta lineare. E il bello (cioè il tragico) è che, mentre cerchiamo di archiviare tutto, smettiamo di comprendere qualcosa. La saturazione informativa ha già ucciso la memoria semantica: quella che collega idee, storie, contesti. Salvare tutto è il modo migliore per non trovare niente.
Ogni tanto qualche barlume di lucidità emerge, tipo la frase della bibliotecaria Andrea Ogier: “Non possiamo salvare tutto, ma non è una scusa per non provarci.” È il tipo di aforisma che dovrebbe essere stampato su magliette nei laboratori digitali del futuro, quelli dove si cerca disperatamente un lettore per un file .wks del 1994.
E intanto ci illudiamo che la conoscenza sopravviverà nel museo infinito dell’internet. James Webb, Pitagora e tutorial su come fare l’assolo blues perfetto. Certo, tutto lì. Finché un giorno non ci accorgeremo che i link sono rotti, i server spostati, i permessi revocati, i file corrotti. O semplicemente: non sappiamo più dove guardare.
Sai cosa resta davvero? Le storie. Quelle che passano da cervello a cervello, anche senza fibra ottica. Quelle che resistono ai blackout, agli aggiornamenti obbligatori, al capriccio delle licenze. Ma anche quelle, se non le salviamo bene, le perderemo. Perché anche le storie hanno bisogno di formati. E anche le storie, se non le racconti, muoiono.
Quindi no, non ce la faremo. Ma possiamo far finta di provarci, e magari lungo la strada, salvare qualcosa che conta. Anche solo per poter dire, tra cent’anni: “Almeno ci abbiamo provato, con tutta la lucidità di un backup automatico settimanale e l’angoscia cronica di chi sa che il tempo vince sempre.”
Inspired by MIT Technology Review