Bitcoin è tornato a mordere l’altissimo, sfiorando nuovi record. I giornalisti economici celebrano con entusiasmo il solito “rally”, ma nel sottobosco del mondo cripto si muove qualcosa di più silenzioso, letale e soprattutto regolamentato: i stablecoin. Non il genere sexy e iper-volatile che ti promette Lamborghini dopo 48 ore, ma quelli grigi, stabili, noiosi. Proprio per questo letalmente efficaci. E ora Hong Kong, come un samurai contabile con la giacca di Armani, decide di legiferare. Gli USA pure. È guerra fredda. Anzi, bollente.

Parliamoci chiaro: i stablecoin sono l’ultima arma finanziaria in mano alle nuove potenze digitali. Non fanno rumore, non oscillano come Bitcoin, ma stanno riscrivendo l’infrastruttura monetaria globale. La loro keyword segreta è “pegged”: appoggiati, ancorati, inchiodati al dollaro. E sì, più cresce il mercato dei token ancorati al biglietto verde, più cresce il dominio del dollaro stesso. E questo, in Cina, non va giù.

Nel frattempo, Tether creatura semi-mitologica con sede nei Caraibi e headquarters autoproclamato in El Salvador – controlla con USDT più di 152 miliardi di dollari di valore. Circle, con base a Boston e vocazione IPO, insegue con i suoi 61 miliardi di USDC. Due aziende, un’unica verità: oltre l’80% del mercato stablecoin è denominato in dollari. È come se la Fed stampasse moneta anche in Metaverso.

E no, non è più solo roba da nerd. Oggi i stablecoin vengono usati per pagamenti cross-border, per rimesse nei mercati emergenti, per transazioni finanziarie in aree non bancarizzate. Sono la versione cripto del contante globale. Ti permettono di spostare milioni senza passare dalle banche centrali. E qui inizia il mal di stomaco dei regolatori.

A Hong Kong, nel 2022, qualcuno ha avuto l’ardire di dire che le cripto sono il futuro della finanza cittadina. Non per moda, ma per strategia geopolitica: rendere Hong Kong una capitale della finanza virtuale. Peccato che il vicino di casa – Pechino – preferisca bloccare tutto. Censura, repressione, bando delle criptovalute. Ma a sud, nella ex colonia britannica, qualcosa si muove.

La nuova legge sui stablecoin approvata a Hong Kong obbliga tutti gli emittenti a ottenere una licenza HKMA. Vuol dire dover dichiarare le riserve, dimostrare la solvibilità, seguire regole da banca, senza esserlo. È la formalizzazione del fatto che i token pegged alle fiat sono strumenti di pagamento reali, e potenzialmente sistemici. Tradotto: se crollano, fanno male quanto una banca centrale con l’influenza.

Ma attenzione al plot twist. Tra i partecipanti al sandbox regolamentato ci sono JD.com, Standard Chartered, Animoca Brands e perfino Hong Kong Telecom. Non stiamo parlando di ragazzini col laptop e il portafoglio Metamask. Sono giganti. Aziende tradizionali, banche, operatori telecom: tutti pronti a lanciare il loro stablecoin. O a prendersi una fetta del bottino prima che sia troppo tardi.

Dietro questa corsa regolatoria c’è un solo grande desiderio: controllo. I governi hanno finalmente capito che i stablecoin non sono una moda, ma un’infrastruttura alternativa. Una shadow banking system globale, ma con interfaccia utente più sexy e scalabilità infinita. Una backdoor per l’egemonia monetaria. E gli USA l’hanno capito prima degli altri.

In questo contesto, la Cina è il grande assente. O meglio, lo spettatore con le mani legate. Troppo impegnata a difendere la narrativa dell’e-yuan controllato dallo Stato per capire che il mondo gira già su token privati ancorati al dollaro. Come ha scritto recentemente Zhang Ming della Chinese Academy of Social Sciences, “la crescita dei stablecoin in USD rafforza l’egemonia americana”. Tradotto dal mandarino: stiamo perdendo la guerra.

Allora arriva la proposta shock: creare stablecoin in yuan, diffusi e competitivi a livello globale. Ma l’ironia è che per farlo la Cina dovrebbe liberalizzare il settore. Lasciare spazio ai privati. Aprirsi. Cioè fare l’opposto della sua politica attuale. Un paradosso degno di Kafka in versione fintech.

E mentre l’Est riflette, l’Ovest costruisce. Gli Stati Uniti spingono sull’adozione. I giganti del Web3 si preparano alla prossima rivoluzione. E nel frattempo, i piccoli Paesi diventano hub: El Salvador, Bahamas, Singapore. Anche Hong Kong, in una danza di equilibrio tra liberalismo finanziario e autocrazia continentale, cerca il suo posto.

I stablecoin non sono cripto, sono infra. Sono cavi sottomarini digitali che trasportano valore. Chi li controlla, controlla il commercio. Chi li regola, disegna la nuova geopolitica monetaria.

Il vero spettacolo non è Bitcoin che rompe i massimi. È Tether che, con sede in un paradiso fiscale, gestisce una fetta del PIL americano. È Circle che vuole quotarsi a Wall Street mentre si comporta da banca centrale privata. È la danza ironica tra regolatori e innovatori, dove ognuno recita la parte dell’altro.

E la morale? Forse questa: la finanza moderna non la controlla più chi stampa moneta, ma chi stampa codice. E in questo codice, i stablecoin sono il nuovo standard. Non brillano, non affascinano. Ma dominano.

Come certe aziende che tutti fingono di ignorare, fino a quando non si scopre che hanno già vinto.