Per chi ancora crede che basti un po’ di hype, qualche buzzword ben distribuita e un’interfaccia pulita per sfidare Google, la parabola di Perplexity AI è una lezione da tenere sul comodino, magari accanto a “La società dello spettacolo” di Debord, per digerirla prima di dormire.

In un mercato dove anche le big tech sudano per giustificare i loro multipli, questa startup è riuscita a generare 34 milioni di dollari in ricavi, bruciandone però quasi il doppio in contanti.Complimenti: un rogo finanziario alimentato con carburante VC, incenso e qualche gigabyte di fumo.Chiariamo subito la keyword principale: Perplexity, motore di ricerca AI.

A corredo ci muoviamo su semantiche come intelligenza artificiale generativa, startup AI, modelli linguistici. Ma la vera chiave qui è un’altra: costo della crescita. Perché il conto, alla fine, lo paga sempre qualcuno. In questo caso, sono stati investitori, utopisti digitali e qualche utente premium stregato dal fascino dell’AI conversazionale “che non mente mai”.

Nel 2024, in piena offensiva di strumenti gratuiti firmati Google e OpenAI, Perplexity ha deciso di farsi pagare. Mossa audace, quasi quanto l’idea di vendere ghiaccio agli eschimesi. Eppure, il numero di utenti è cresciuto, e con essi le sottoscrizioni. O almeno così pare. Perché quando scavi sotto la superficie, ti accorgi che quasi la metà delle vendite di abbonamenti è stata scontata.

Una strategia degna di un outlet digitale più che di una deep tech company. Promozioni, bundle, mesi gratuiti: tutto pur di aumentare le metriche da mostrare ai fondi nel prossimo pitch.

Che dire dei costi? 57 milioni di dollari volatilizzati tra API di OpenAI, licenze da Anthropic e server cloud. Una startup che costruisce il proprio prodotto su fondamenta esterne, pagando tariffe da salasso per ogni risposta generata. Un modello brillante come aprire una gelateria dove ogni cono venduto costa più della paletta di gelato acquistata. La marginità? Un miraggio. L’autonomia? Una favola. L’ottimizzazione? Al momento, assente ingiustificata.

Eppure Perplexity, la startup di San Francisco, ha chiuso l’anno con 850 milioni di dollari in cassa. Grazie a chi? Al solito balletto da Silicon Valley: quattro round di finanziamento in poco più di un anno, con l’ultimo a una valutazione da 14 miliardi di dollari.

Un multiplo surreale su un fatturato da serie B, ma tant’è: oggi il valore percepito batte il valore reale. Se sembra AI, funziona come AI e dice le cose come ChatGPT, allora vale oro. Almeno finché il fondo successivo è disposto a rilanciare.La logica è quella del “growth at all costs”.

Non importa se la redditività è un sogno lontano. L’importante è crescere, mostrare grafici che puntano verso l’alto, e citare in ogni deck parole magiche come “transformative”, “agentic” e “multi-modal”. Come se l’intelligenza fosse veramente artificiale e non solo artificiosamente venduta.Nel frattempo, Google continua a integrare AI nei risultati di ricerca, a costo zero per l’utente. OpenAI ha lanciato GPT-4.5 con browsing nativo.

Microsoft spinge Copilot ovunque, anche nel microonde, se necessario. Ma Perplexity? Continua a posizionarsi come “motore alternativo”. Alternativo a cosa, esattamente? A un modello di business sostenibile?Una nota di colore: Perplexity è ancora dipendente da modelli che non controlla.

La sua capacità di “possedere” una tecnologia core è pari a quella di un rivenditore di automobili che dice di aver costruito il motore. Se un giorno OpenAI decide di chiudere l’accesso, o di aumentare i prezzi delle API, che succede?

Semplice: fine della festa.E allora, perché i VC continuano a investire? Perché siamo nel pieno della fase del tecno-entusiasmo tossico, quella in cui ogni startup AI promette di essere la “next Google”.

Lo dice anche la stampa, compiacente: “Perplexity, il motore che sfida Google”. Ma più che una sfida, sembra un duello tra un coltello di plastica e un carro armato. Mentre gli utenti giocano con la novelty, la sostenibilità resta fuori dalla porta, a fumarsi una sigaretta.

C’è un punto che sfugge a molti: l’AI generativa non è un gioco a costo zero. Ogni query, ogni immagine generata, ogni video sintetico ha un costo computazionale. E quando il modello non è tuo, ogni interazione è una tassa da pagare. Così, i 34 milioni incassati diventano solo un numero da vetrina. I veri margini sono quelli dei fornitori.La verità è che l’intelligenza artificiale, oggi, è la nuova “energia”.

Chi controlla l’infrastruttura fa profitti, chi la consuma cerca solo di non fallire. Perplexity si trova nel mezzo: promette democratizzazione, ma compra i mattoni da altri. A prezzi che solo un fondo VC con le fette di prosciutto davanti agli occhi può ritenere giustificabili.Siamo quindi davanti a una startup che vive un’illusione di crescita, alimentata da storytelling, sconti e venture capital.

Eppure, in questa danza quasi pirandelliana tra realtà e apparenza, Perplexity è perfettamente nel suo tempo. Un tempo in cui la percezione vale più della sostanza, e la narrativa più dei numeri.

Come diceva Oscar Wilde, “a volte bisogna essere superficiali per non essere troppo profondi”. Perplexity lo ha capito bene. Ma la profondità, quella vera, non si compra a colpi di funding.