Dai maratoneti caduti ai pugili robotici: benvenuti nella Disneyland del transumanesimo cinese, dove l’intelligenza artificiale non si limita più a rispondere alle e-mail, ma ti prende a calci sui denti. O almeno ci prova. Domenica a Hangzhou, patria della start-up Unitree Robotics, quattro esemplari del modello G1 si sono affrontati in un torneo di kickboxing trasmesso in diretta nazionale su CCTV. E no, non è il trailer di Black Mirror, ma un aggiornamento del presente che molti fingono di non vedere.
La keyword è robot umanoidi, le secondarie inevitabili: Unitree Robotics, algoritmi di controllo AI. Ma il messaggio subliminale vero è un altro: se questi cosi sono già in grado di combattere, ballare e cadere per poi rialzarsi, quanto manca al momento in cui faranno anche colloqui HR o presidieranno i checkpoint delle rivolte urbane?
Ma andiamo con ordine. Il G1 è un aggeggio alto 130 centimetri, 35 chili di peso, guantoni da kickboxing e una maschera da hockey che fa sembrare tutto ancora più grottesco. Il combattimento non è autonomo nel senso hollywoodiano del termine. Non sono Terminator. Sono telecomandati. Ma non da un joystick da console, bensì da comandi vocali e sequenze pre-codificate basate su algoritmi AI avanzati. Lo ha spiegato con fare neutro Liu Tai, vice capo ingegnere del China Telecommunication Technology Labs, confermando ciò che molti sospettano: dietro a ogni pugno sferrato da un G1, c’è un mini Google in tempo reale che calcola, prevede e corregge.
A ogni round, questi piccoli gladiatori digitali si esibivano in finte, pugni, calci e quel famigerato “kip-up”, una mossa acrobatica per rialzarsi in stile Jackie Chan. Più che una rissa, uno show algoritmico.
E qui arriva il paradosso: nessuno dei G1 ha agito in maniera veramente autonoma, ma tutti hanno simulato benissimo un’aggressività funzionale. L’illusione di volontà è più inquietante della volontà stessa. Quando un robot finge di voler picchiare, lo fa meglio di un umano che lo desidera davvero. E qui si svela il vero punto di svolta: la performatività dell’intelligenza artificiale, non la sua consapevolezza. Lo show non è che una dimostrazione di forza per una Cina che ha deciso di industrializzare l’illusione del futuro.
Tutto questo accade mentre la Cina spinge l’acceleratore su un mercato dei robot umanoidi destinato, secondo TrendForce, a entrare in produzione di massa nel 2025. Si parla di oltre mille unità prodotte quest’anno da 6 aziende domestiche, tra cui AgiBot, Engine AI e Galbot. In altre parole: è cominciata l’era in cui la replicazione del corpo umano in silicone e servomotori diventa catena di montaggio.
Ah, e per chi si chiedesse se le altre aziende erano presenti: no, solo Unitree ha partecipato. Ma era una mossa di branding, non una competizione vera. Dopo il mezzo imbarazzo della maratona di Pechino – dove un robot G1 era inciampato a inizio corsa in un video diventato virale – il kickboxing serviva a ripulire l’immagine del marchio e ribadire che, no, non stanno costruendo solo giocattoli da YouTube. Stanno prototipando il futuro della militarizzazione del gesto umano.
Non dimentichiamoci infatti che dietro ogni movimento fluido e controllato si nasconde un’architettura software da brividi: decine di micro-algoritmi che si sincronizzano su base predittiva, compensano la perdita di equilibrio e adattano le risposte a stimoli esterni. Come ha spiegato Liu Tai, il robot non si muove “a comando”, ma tramite una orchestrazione attivata da eventi. È la logica del “triggered AI”: tu dai lo stimolo, lui orchestra il resto. E mentre tu pensi che stia seguendo un ordine, lui ha già calcolato otto varianti dello scenario.
Nel frattempo, l’occidente guarda e prende appunti. Secondo Morgan Stanley, il 56% delle aziende coinvolte nella progettazione di robot umanoidi oggi è cinese. Non coreana, non statunitense, non tedesca. Cinese. Ma non stupiamoci: l’AI è il nuovo acciaio. E Pechino è la nuova Sheffield.
Il valore reale di eventi come questo non è tecnologico, è semiotico. Un robot che combatte non serve a combattere. Serve a comunicare. Serve a dire che i confini del corpo sono stati oltrepassati, che l’umanità è diventata estensione accessoria del software. E serve a trasmettere a una generazione iper-connessa, ma apatica, un messaggio preciso: l’intelligenza artificiale non è più un tool. È uno status.
E quando i robot inizieranno a vincere le Olimpiadi dei pixel, a battere atleti umani nei tornei e a ballare sul palco della festa di Capodanno insieme a ballerini in carne ed ossa – come già accaduto con il modello H1 alla Gala di Primavera – nessuno si chiederà più “se” sostituiranno l’uomo. Ma solo “quando” sarà socialmente accettabile farlo.
In fondo, la domanda vera non è quanto siano evoluti i G1, ma quanto siamo disposti a lasciarci affascinare da qualcosa che ancora non pensa, ma già simula perfettamente di volerci superare.
Come disse McLuhan, “il medium è il messaggio”. Ma nel 2025, il robot è il messaggio.