Digiti una domanda su Google. Un dubbio semplice, quasi banale: “Qual è la differenza tra LLM e NLP?” Inizia il circo. Primi cinque risultati: blog farciti di parole chiave, articoli scritti per ingannare l’algoritmo, non per illuminare l’essere umano. Leggi titoli come “Scopri la differenza TRA NLP E LLM nel 2024: guida definitiva!” – e capisci subito che sei finito in una trappola SEO. Scrolli, salti banner pubblicitari, accetti cookie, chiudi pop-up, ignori newsletter invasive. E quando arrivi finalmente al contenuto… fluff. Niente ciccia. Un brodino informativo insipido, riscaldato da un freelancer sottopagato che ha copiaincollato Wikipedia con un plugin. (onelittlewebstudy)
Nel frattempo, avvii un AI chatbot. Scrivi la stessa domanda. Ti arriva una risposta coerente, contestualizzata, sintetica. Zero pubblicità. Nessuna distrazione. È come parlare con un essere senziente che non cerca di venderti un ebook. Non ti chiede nemmeno di “lasciare un commento sotto se hai trovato utile il contenuto”.
Stiamo assistendo alla fine della Ricerca così come la conoscevamo.
Sì, l’Intelligenza Artificiale sta ridisegnando lo spazio cognitivo del web. Non è solo una moda passeggera: è un reset strutturale. Il paradigma è cambiato. Google, oggi, è un museo vivente del web anni 2010: pop-up, pubblicità programmatica, UX distrutta, sovrastruttura SEO tossica. Ha smesso da tempo di essere uno strumento di conoscenza. È diventato un mercato delle pulci digitali.
Nel frattempo, la massa silenziosa si sposta. OneLittleWeb lo ha misurato con i numeri (fonte Semrush, e se sei CTO come me, ti piacciono i numeri): il traffico ai chatbot AI è esploso del +80,9% in un solo anno, mentre i motori di ricerca hanno segnato un mesto -0,51%. Ma la parte gustosa è un’altra: ChatGPT ha ancora “solo” 185 milioni di visite al giorno, contro i 4,7 miliardi di Google. Ok, ma la velocità con cui sta crescendo è logaritmica. La curva non è piatta. È verticale.
E non è una semplice guerra tra strumenti: è una ridefinizione della relazione con la conoscenza.
I motori di ricerca sono il modello Web 1.0 con un vestito nuovo: indicizzazione, crawling, matching semantico e ranking. Ma tutto dipende ancora dalla capacità dell’utente di sapere cosa cercare e di riconoscere cosa è utile. Gli AI chatbot (almeno quelli decenti) non cercano: sintetizzano. Ragionano. Offrono risposte, non liste. È una differenza epistemologica, non solo tecnica.
Chiunque lavori nel marketing digitale ha già capito il problema: l’era del “content is king” è finita. Se quel contenuto non è risposto in tempo reale, personalizzato, contestualizzato, allora è rumore. I blog SEO-oriented hanno i giorni contati, e l’editoria web generalista è già clinicamente morta. È stata uccisa dalla sindrome da click e dalla bulimia di articoli inutili. Una morte meritata.
Ora, è vero: gli LLM hanno ancora limiti. Allucinazioni, bias, mancanza di aggiornamento in tempo reale (a meno di plugin specifici). Ma anche qui, la partita è truccata. Google stesso ha integrato un modello generativo nel suo motore: SGE – Search Generative Experience. Ma in perfetto stile Google, lo ha fatto in modo schizofrenico: mescolando link, snippet e risposte AI, ha creato un mostro con tre teste. Né ricerca né risposta. Un labirinto mentale.
Quello che sta nascendo, a livello macro, è un ecosistema ibrido. I chatbot diventano la prima linea del dialogo. La ricerca tradizionale diventa il backend, la fonte, l’archivio. In altre parole: l’utente chiede all’AI, e l’AI chiede al web. Ma a decidere cosa mostrare e come, è sempre lei: l’AI. È la nuova interfaccia epistemica tra noi e l’informazione.
Questa transizione sta mettendo nel panico i giganti del tech. Google non può perdere la search. È il suo core business. Ma se la user experience è frustrante, e se la fiducia degli utenti viene corrosa dalla pubblicità invasiva e dai contenuti scadenti, allora sì, anche un colosso da 4,7 miliardi di visite al giorno può implodere. Lentamente. Come una stella che muore per gravità interna.
Curiosità semantica: il verbo “to google” è diventato un verbo. Ma se domani l’abitudine cambia, quel verbo diventerà una reliquia linguistica. Come “noleggiare una videocassetta”. Nostalgia da paleoweb.
Nel frattempo, ogni giorno che passa, milioni di utenti in più parlano con un AI invece che cercare. Non cercano più “siti web”. Cercano risposte. Cercano tempo. Cercano fiducia. Tre cose che Google non offre più. E gli AI chatbot, sì.
La verità è semplice: la ricerca tradizionale è rotta. L’AI non l’ha ancora sostituita. Ma la sta rendendo obsoleta.
Il futuro non è “Google vs ChatGPT”. È interazione semantica continua vs giungla di link.
E noi, stanchi, stressati, multitasker cronici, abbiamo già deciso da che parte stare. Anche se non lo sappiamo ancora.