Mentre The Browser Company giura e spergiura che Arc non verrà abbandonato, la realtà è più sottile, più viscida: Arc è diventato un prodotto morto-vivente. Non sarà rottamato, certo, ma nemmeno sviluppato. Nessuna nuova feature. Nessuna evoluzione. Solo patch di sicurezza. In altre parole: mantenimento passivo, tipo badante per software geriatrico. Il nome ufficiale è “maintenance mode”, ma suona molto come “coma farmacologico”.

Benvenuti nel mondo post-Arc. Un mondo dove l’AI è la nuova stella, e Arc con la sua interfaccia brillante ma troppo sofisticata per l’utente medio con due neuroni e il pollice opponibile non ha più spazio. Il futuro è Dia, il nuovo browser-IA-centrico, e l’unica vera domanda è: perché non semplicemente fondere Arc e Dia in un’unica piattaforma potente e coerente? Risposta ufficiale: sicurezza. Risposta reale? Strategia, controllo, e probabilmente un pizzico di marketing tossico mascherato da evoluzione inevitabile.

Josh Miller, CEO con velleità da filosofo software, ha scritto un blog post per spiegare la “scelta difficile”. Leggendo tra le righe, il messaggio è chiaro: Arc era troppo avanti per il suo tempo. Ma anche, e soprattutto, troppo fragile, troppo lento, troppo instabile. Che tradotto significa: bello, ma ingestibile. E in un mondo dove i prodotti devono scalare velocemente per compiacere venture capitalist dal click facile, l’ideale diventa un problema.

In effetti, Arc aveva un problema di sicurezza mica da ridere: un exploit che permetteva l’iniezione di codice maligno semplicemente conoscendo l’ID utente. Un dettaglio che oggi, nell’epoca degli agenti AI autonomi — entità che agiscono per conto nostro online, prendendo decisioni ed eseguendo comandi — è più che una semplice macchia. È un tallone d’Achille che rischia di diventare un buco nero. Oggi The Browser Company dice di avere ben cinque ingegneri dedicati alla sicurezza (da uno solo che era prima), come se fosse un esercito. Ma intanto Arc resta lì, vulnerabile nella sua architettura mista, una creatura mezza Chromium, mezza infrastruttura proprietaria.

Nonostante tutto, Arc non sarà open-sourced. E no, non sarà nemmeno venduto. Perché, spiega Miller, aprirlo significherebbe esporre elementi critici che condividono lo stesso DNA di Dia. Una mossa che — parole sue — metterebbe a rischio il team e gli azionisti. Tradotto: non vogliono che qualcuno possa fare un fork e creare un “Arc 2.0” gratuito e concorrente. Altro che ethos open web.

La vera ironia è che Arc aveva tutto per diventare il browser del futuro. Ma come spesso accade in questo settore, è stato proprio il suo essere troppo “futuro” a segnarne la fine. L’interfaccia innovativa, l’organizzazione a sidebar, i “spaces”, le note e la modalità di creazione documenti — strumenti da utente avanzato, sì, ma anche profondamente umani — erano un tentativo raro e nobile di reinventare la navigazione. Ma troppo cerebrale. Troppo pensato per chi usa davvero il web, non per chi lo consuma in automatico tra un TikTok e l’altro.

Dia, il nuovo golden boy dell’azienda, sarà centrato sull’AI. Ovvero: tutto diventa prompt, agente, completamento predittivo. Non navighi più, deleghi. Non pensi più, chiedi. “Lascia fare all’agente”, dicono. E così, un browser nato per amplificare la creatività finisce sostituito da uno che la sostituisce. Uno scambio sottile ma devastante.

La cultura dietro a questo passaggio è rivelatrice. Non è solo una scelta tecnica. È un cambio di paradigma: dal potere all’utente al potere all’algoritmo. Dal controllo alla delega. Dai tool all’assistenza. Come se l’interazione umana col web fosse un problema da eliminare, non da potenziare.

Naturalmente, la transizione sarà morbida. Arc continuerà a esistere. Si aggiornerà in background. Nessun messaggio funebre. Nessun commiato ufficiale. Solo un lento svanire nella manutenzione passiva. Un’agonia silenziosa, come solo le startup ben finanziate sanno orchestrare.

Per gli utenti di Arc — quelli veri, quelli che avevano adottato il browser per la sua unicità — è un tradimento dolceamaro. Un po’ come se Apple dichiarasse che l’iPhone continuerà a funzionare, ma smetterà di innovarlo. O come se Tesla smettesse di aggiornare l’autopilota, “ma tranquilli, i freni funzionano ancora”.

In un mondo in cui la parola “innovazione” viene usata come deodorante per decisioni aziendali scomode, questa è solo l’ennesima riprova che la vera innovazione fa paura. E quando diventa difficile da gestire, si disintegra per mano di chi l’ha creata.

Come diceva Douglas Adams: “We are stuck with technology when what we really want is just stuff that works.” Arc era roba che funzionava, ma che ti chiedeva anche di pensare. Forse era proprio quello il problema.

Ecco perché Arc morirà lentamente, senza un vero funerale. Perché non è più in linea con un mondo dove il browser deve agire, non solo riflettere. Dove il pensiero critico è un bug, non una feature. E dove il futuro ha la voce sintetica di un’agente AI che decide per te cosa leggere. O peggio: cosa ignorare.