Marc Benioff è tornato nel suo habitat naturale: comprarsi aziende come se fossero francobolli rari. L’acquisizione di Informatica per 8 miliardi di dollari in contanti segna il ritorno del fondatore di Salesforce al gioco che ama di più, dopo un paio d’anni di “riabilitazione forzata” sotto l’occhio vigile degli attivisti finanziari. Quegli stessi fondi che, tra il 2022 e il 2023, gli avevano fatto capire che la festa a colpi di acquisizioni a prezzi da champagne da tre stelle Michelin doveva finire. Per un po’.
Il tempismo è tutto, e Benioff lo sa. Mentre la Silicon Valley entra nell’era dell’AI agent, quei software generativi che promettono di agire per conto delle persone e non solo di rispondere a domande (spoiler: ancora non lo fanno), Salesforce si trova in un punto di rottura. Crescita in frenata, competizione esplosiva e clienti enterprise che si chiedono se stiano pagando troppo per dei CRM che sembrano scritti nel 2014.
Ora, con una proiezione di crescita del fatturato scesa al 7-8% annuo – una vertiginosa discesa rispetto al 25% del 2021, quando comprò Slack – Benioff aveva bisogno di una nuova mossa narrativa. Slack, va ricordato, fu una mezza follia da 27 miliardi: costosa, sopravvalutata e integrata con la grazia di un’autoarticolato in un vicolo cieco.
Informatica, invece, ha un sapore diverso. Non è un giocattolo brillante da esibire a Davos. È una mossa chirurgica, quasi noiosa, che però si incastra perfettamente con la parte più sottovalutata e cruciale del business Salesforce: MuleSoft. Parliamo della gestione dei dati, quella cosa che nessuno ama ma tutti vogliono funzionante. Perché senza dati ben strutturati, l’AI generativa è come un jet privato senza pista d’atterraggio: impressionante, ma inutile.
E qui si capisce perché Benioff abbia staccato l’assegno da 8 miliardi: Informatica fa il lavoro sporco. Prende dati grezzi da fonti disordinate – POS retail, sensori industriali, log da sistemi legacy – e li rende digeribili da modelli di AI. Se Salesforce vuole vendere “AI agents” credibili, deve prima smettere di vendere sogni e iniziare a costruire tubature solide. Con Informatica, mette le mani proprio su quei tubi.
Certo, c’è un dettaglio da non ignorare: sta davvero pagando il giusto? L’anno scorso si parlava di un prezzo vicino agli 11 miliardi. Oggi l’ha portata a casa per 25 dollari ad azione, quando il titolo ne valeva 38 dodici mesi fa. Un affare? Forse. Ma anche un segnale inequivocabile: Benioff non ha dimenticato la lezione degli attivisti, almeno per ora. L’uomo che amava strapagare, questa volta è entrato con il portafoglio più stretto. La stock option detox pare funzionare.
C’è un altro aspetto cinico e interessante. Informatica è in transizione verso un modello cloud-based. Il business legacy cresce del 3,9%, un dato pietoso. Ma la parte cloud cresce del 32%. Il problema è che rappresenta meno della metà dei ricavi. Quindi stai pagando 8 miliardi per un’azienda che è metà innovazione, metà zavorra. Come acquistare una Tesla con ancora il serbatoio della benzina montato. Ma Benioff sa che può sempre dichiarare in una earnings call che “la trasformazione è in atto” e magicamente il mercato si autoipnotizza.
E i dipendenti di Informatica? Loro, dopo un decennio passato tra fondi di private equity, IPO poco gloriose e un valore di mercato che oggi sta sotto il prezzo dell’IPO del 2021, possono finalmente smettere di aggiornare il CV. Magari.
La verità è che Salesforce è arrivata a un bivio. Gli AI agent non sono più una demo da evento annuale, sono un’urgenza strategica. OpenAI, Microsoft, Amazon e Google stanno cannibalizzando l’enterprise software. Chi controlla i dati – e li può normalizzare e collegare in tempo reale – controlla la prossima fase dell’automazione. Salesforce lo ha capito. L’AI è l’ennesimo rebranding del vecchio sogno enterprise: vendere efficienza a caro prezzo. Ma per farlo servono basi solide, non keynote ispirazionali.
E mentre Salesforce rilancia, dall’altra parte del Pacifico un altro gigante traballa. PDD Holdings – il colosso dietro Temu – è finito sotto la falce del protezionismo americano. Il risultato? La crescita è passata da un clamoroso 131% a un misero 10%. Profitti dimezzati, azioni in caduta libera. E la parte surreale? Nella call con gli analisti non hanno nemmeno nominato Temu. Una ghost operation.
Ironia della sorte: mentre Benioff torna a fare acquisti in stile vecchia economia, Temu – l’emblema dell’economia flash, iper-scontata, guidata da pubblicità compulsiva – frena bruscamente. I dazi USA, l’abolizione delle scappatoie doganali e il ripensamento del modello basato su ads hanno colpito duramente. L’era del “tutto a un euro con spedizione gratuita” sembra avviarsi alla chiusura.
Ma la lezione è universale: chi non controlla i dati, chi non possiede l’infrastruttura, chi non costruisce sul lungo termine, è destinato a sparire dal radar degli investitori. Che si chiami Temu o Informatica.
In fondo, questo è il paradosso della tech economy 2025. Da un lato il sogno iperveloce dell’AI che sostituisce il lavoro umano, dall’altro l’ostinata realtà dei log, dei database, dei sistemi legacy che devono parlare tra loro. E Benioff, con la sua acquisizione apparentemente noiosa, ci ricorda che l’unica vera intelligenza artificiale è quella che sa dove mettere i soldi.