Nel nome dei bambini si giustifica tutto. Lacrime di coccodrillo, appelli alla morale, bandiere agitate nel vento delle elezioni. E così, mentre il governatore del Texas Greg Abbott firma una legge che obbliga Apple e Google a verificare l’età degli utenti prima di farli accedere agli app store, ci troviamo di fronte all’ennesimo teatro del potere dove la parola “sicurezza” nasconde ben altro: il controllo. Il controllo del flusso di dati, della distribuzione del software, dell’identità digitale. E, soprattutto, chi ha l’ultima parola su tutto questo.
La legge texana punta ufficialmente a proteggere i minori da app “pericolose”, social media in testa, passando per app di incontri che – evidentemente – un dodicenne texano avrebbe in cima alla sua lista di desideri digitali. In pratica, si impone alle piattaforme di autenticare l’età degli utenti prima di concedere l’accesso all’App Store. Tradotto nel linguaggio reale: Apple dovrebbe iniziare a chiedere una carta d’identità, un selfie biometrico, o una scansione del DNA prima di farti scaricare TikTok. E poi, questa informazione dovrebbe condividerla con le app di terze parti, quelle stesse contro cui Apple si è sempre battuta per limitare la raccolta dati. La privacy come bandiera, quando conviene.
Il CEO Tim Cook non l’ha presa bene. Secondo Bloomberg, ha perfino alzato la cornetta – metafora vintage ma efficace – per chiamare personalmente Abbott e tentare l’ultimo atto di lobbying diretto. Invano. La legge è passata lo stesso. Ma qui non siamo davanti a una semplice scaramuccia regolatoria tra Stato e Big Tech. No, questa è una guerra di potere su chi gestisce la legittimità nell’ecosistema digitale. La keyword qui è: sovranità tecnologica. Il Texas vuole esercitarla. Apple vuole mantenerla. E nel mezzo ci siamo noi, utenti trasformati in prigionieri consenzienti dell’usabilità.
Quello che pochi notano è che questa legge, dietro il paravento della moralità infantile, è una mina sotto il monopolio operativo degli store digitali. Se lo Stato può imporre le regole di accesso agli store, domani potrà decidere quali app siano “appropriate”, quali sistemi di pagamento siano consentiti, quali criteri un’app debba soddisfare per essere distribuita. È l’inizio della regolamentazione decentralizzata degli store mobili, il sogno bagnato di ogni legislatore conservatore in cerca di visibilità, ma anche di ogni concorrente di Cupertino che ha visto le proprie app affogare tra le linee guida di revisione opache e arbitrarie.
Apple lo sa. E ha paura. Perché se oggi il Texas chiede il controllo sull’età, domani l’Ohio chiederà il controllo sui contenuti. Dopodomani, la Florida vorrà il controllo sui pagamenti. E nel frattempo, l’Europa osserva, pronta a scrivere un Digital Markets Act versione Texas-style, con in più un pizzico di antitrust francese e una spolverata di GDPR.
E qui arriva l’ironia: Apple, paladina della privacy, è oggi sotto tiro proprio per non voler cedere dati. Una posizione nobile, certo, ma anche tremendamente comoda. Perché lasciare la verifica dell’età alle app significa proteggere l’App Store da ogni responsabilità legale. Una sorta di “non vedo, non sento, non so”, versione high-tech. Il problema però è che questo sistema comincia a scricchiolare. Troppi scandali, troppe fughe di dati, troppi minori coinvolti in dinamiche tossiche e virali su piattaforme che – formalmente – non dovevano nemmeno usare.
Allora, di cosa stiamo parlando davvero? Di giurisdizione sul software. Di modelli di business fondati sull’ignoranza strutturale. E soprattutto, di una lotta per decidere chi è il guardiano del portale digitale: l’azienda o lo Stato? Apple difende la sua posizione di gatekeeper globale, in cui decide lei cosa si può o non si può fare nel suo giardino chiuso. Il Texas, con questa legge, le ricorda che siamo ancora in una democrazia. Almeno sulla carta.
Ma attenzione. Non si esca da qui credendo che Abbott sia un Robin Hood digitale. No, è solo un altro giocatore che ha capito che la retorica dei “bambini in pericolo” è il passepartout per entrare in qualunque porta legislativa. Lo stesso trucco usato per giustificare la sorveglianza, le censure scolastiche e le piattaforme “patriottiche”. Qui non si tratta di protezione: si tratta di potere. Di ridefinire il chi comanda nella nuova infrastruttura sociale.
Apple ha già vinto battaglie simili. Ha fatto fuori le proposte di legge che avrebbero obbligato lo store ad accettare pagamenti esterni. Ha resistito alla frammentazione normativa con l’eleganza di chi ha in mano l’intero mazzo di carte. Ma questa volta l’assalto arriva da più lati. E se ogni Stato inizia a legiferare diversamente, la promessa di un ecosistema universale si frantuma. Il sogno del software “write once, run anywhere” si trasforma in un incubo da patch localizzata, verifiche geografiche, compliance differenziata.
Nel frattempo, l’utente continua a scrollare. Inconsapevole del fatto che dietro quel semplice gesto ci sono miliardi di dollari, lobbies, leggi, pressioni, telefonate e compromessi. E forse è proprio questo il vero punto: il controllo dell’accesso è il nuovo terreno di scontro globale. E non riguarda solo i bambini. Riguarda tutti noi. Chi può accedere, a cosa, come e perché. La verifica dell’età è solo l’inizio. Poi arriverà il comportamento. Poi l’identità. Poi la conformità.
“Il futuro è già qui – solo che non è distribuito equamente.” William Gibson lo scrisse anni fa. Oggi possiamo aggiungere: è controllato da chi sa costruire il portale. E ora anche da chi vuole regolamentarlo.
Texas vs Apple non è una notizia tech. È un avvertimento.