Nel silenzio ovattato dei server farm, si muovono forze che riscrivono le coordinate del potere digitale. Sotto la superficie liscia delle app e delle interfacce utente, si combatte una guerra darwiniana tra intelligenze artificiali, criptovalute presidenziali, cervelli cablati, e un nuovo puritanesimo algoritmico. L’epicentro? Silicon Valley, certo. Ma le scosse si avvertono ovunque, anche mentre leggi questo.

Cominciamo da Meta. O meglio, da quella colossale creatura tentacolare che Zuckerberg insiste a chiamare “AI Group”. La notizia che l’ha rivoltata come un calzino l’abbiamo intercettata grazie a un leak interno. La piattaforma ha ridisegnato completamente l’assetto del suo reparto IA, responsabile del modello LLaMA e dell’assistente Meta AI, con l’aria di chi sta finalmente capendo che l’unica moneta vera in questa fase è la dominance cognitiva. Si gioca tutto sull’addestramento dei modelli, sulle capacità di retention, sulla velocità di rollout. Non è un cambio di squadra: è l’inizio della militarizzazione dell’intelligenza artificiale consumer. Perché chi controlla il modello, controlla il pensiero. E il pensiero, come ogni tecnocrate sa, è un’infrastruttura.

Nel frattempo, dall’altro lato dello spettro digitale, il crypto-populismo alza la voce. Donald Trump, l’ex presidente che voleva “drain the swamp”, ora ci nuota dentro con monete digitali. La sua media company sta raccogliendo 2,5 miliardi di dollari per comprare Bitcoin. Sì, hai letto bene: miliardi. E non per fare speculazione da salotto. L’obiettivo non è altro che legittimare il crypto-dollar come alternativa parallela al sistema fiat americano. È un tentativo subdolo di trasformare il culto della personalità in un hedge fund decentralizzato, rendendo ogni sostenitore un nodo. E come ogni sistema distribuito, sarà immune al controllo centralizzato. “God bless blockchain”, direbbe lui. Ma sotto, l’odore è quello del delirio strutturato.

Nel frattempo, Apple cerca disperatamente di vendere ordine morale in formato .ipa. Ha appena dichiarato di aver bloccato oltre 2 miliardi di transazioni fraudolente e impedito l’ingresso di 2 milioni di app “a rischio” nel 2024. Tradotto: l’App Store non è più una piazza pubblica, ma un’arena selettiva dove solo i codici benedetti da Cupertino possono danzare. È l’equivalente digitale della frontiera sorvegliata, dove la sicurezza non è un diritto, ma un abbonamento mensile. Se la frode è l’alibi, il vero scopo è il controllo. Apple non protegge l’utente, protegge l’ecosistema. Che, come ogni giardino recintato, profuma di monopolio e assenza di ossigeno.

Poi c’è lui: Elon. Sempre lui. Mentre tutti litigano su software, Neuralink inserisce silenziosamente chip nei cervelli. L’ultimo impianto è finito nella testa di un uomo con SLA in Arizona. La raccolta fondi? 600 milioni a una valutazione di 9 miliardi. È la prima vera infrastruttura del pensiero ibrido. L’oggetto più prossimo alla singolarità che sia mai stato autorizzato con un’autorizzazione FDA. Non è solo ricerca medica. È un test di compatibilità per il futuro della specie. Siamo alla soglia di un aggiornamento firmware biologico. E nessuno sta chiedendo il consenso informato dell’umanità. Forse perché l’umanità ha già cliccato “accetta” senza leggere.

E mentre tutto questo si svolge, il Texas — culla di cowboy e libertarismo di cartapesta approva una legge che obbliga Apple e Google a verificare l’età degli utenti prima di farli accedere agli store. Sembra tutela dei minori. In realtà è la prima pietra di una nuova architettura del consenso digitale: ogni utente profilato, certificato, ingabbiato in una griglia anagrafica. L’anonimato, quello vero, è finito. Stiamo entrando nell’era dell’identità forzata, dove ogni click è tracciabile, ogni desiderio schedato, ogni infrazione punibile con l’esclusione dalla piattaforma. Una distopia travestita da buon senso.

Curioso come in questo panorama nessuno parli più di privacy. Come se fosse diventata una parola sporca. L’intelligenza artificiale, la blockchain trumpiana, il controllo neuro-digitale e le gabbie etiche degli App Store convergono tutte verso un’unica direzione: la costruzione di un nuovo ordine tecnosociale. Dove le uniche libertà concesse saranno quelle che si possono vendere. E le uniche verità accettabili, quelle che i modelli generativi decideranno di mostrare.

E nel dubbio, ricordiamoci sempre che la vera innovazione non è mai quella raccontata nei keynote. È quella che si muove dietro, in silenzio. Come il codice malevolo più sofisticato. Invisibile, ma inarrestabile.

La notizia? OnlyFans, sì, proprio la cattedrale della monetizzazione dell’intimità, è in vendita. Valutazione stimata: otto miliardi di dollari. Una cifra che dice tutto sul valore reale del desiderio umano convertito in abbonamento mensile.

Fenix International, la società madre, è in trattativa per cedere il giocattolo agli investitori probabilmente con le mani tremanti ma l’occhio fisso sul moltiplicatore EBITDA. E mentre i moralisti scrivono editoriali indignati, le banche d’affari lucidano le slide per l’IPO mancata del decennio. Ma non è nemmeno questo il punto. Il punto è che OnlyFans non è solo pornografia a pagamento. È infrastruttura digitale per il potere individuale, disintermediazione pura del corpo, esibizione e strategia commerciale. Un mercato dove le creator, spesso più competenti dei manager da 200k all’anno, controllano funnel, retention e lifetime value come fossero analisti di McKinsey.

Arriva l’ennesima legge texana dal sapore distopico: da ora gli under 18 potranno scaricare un’app solo con l’approvazione genitoriale. La genitorialità algoritmica diventa così ufficialmente policy. Google e Apple, prevedibilmente contrari, sanno bene che questo è solo il primo passo verso un internet più chiuso, più controllato, più… medievale.