Un miliardo di utenti al mese. No, non è la capitalizzazione in dollari di un’azienda crypto caduta in disgrazia, è il numero di persone che, secondo Mark Zuckerberg, stanno già usando Meta AI. Sottolineo: già usando. Non “useranno”, non “potrebbero usare”, ma sono lì, ogni mese, ad accarezzare – consapevoli o meno – le meraviglie della generative AI marchiata Meta.
Ed eccolo, il teatro annuale degli azionisti Meta. Zuck, giacca sobria e sguardo da predicatore, ripete il mantra della nuova era: personal AI. Con l’aria di chi non cerca approvazione, ma legittimazione storica. Perché, mentre il mondo gioca ancora a distinguere tra AI “assistente” e AI “infiltrata”, lui se la ride. La sua creatura non aspetta che tu la cerchi. Vive già nelle vene di WhatsApp, Facebook, Instagram. Invisibile, onnipresente, discretamente indispensabile.
E qui comincia il gioco sporco.
Perché nessuno – né Meta né Google – ama chiarire quanti utenti intendano realmente interagire con la loro AI, e quanti invece ci inciampino come si inciampa in un pop-up. Zuckerberg lo sa. Lo sa bene. E gioca d’anticipo: “È la tua AI personale”, dice. Come a dire: non importa se l’hai scelta tu, è tua comunque.
Una strategia che profuma di colonizzazione silenziosa, più che di innovazione trasparente. Ricorda molto quell’amico insistente che ti regala una pianta carnivora: non l’hai chiesta, ma ora è sul tuo tavolo. E devi darle da mangiare.
Nel frattempo, Sundar Pichai – altro attore principale nella pantomima del potere – annuncia che gli AI Overviews di Google sono arrivati a 1,5 miliardi di utenti. Peccato che nessuno li abbia invitati a cena. Nessun clic, nessun opt-in. Semplicemente appaiono, al posto dei cari, vecchi risultati blu. Come dire: “Non cercare più risposte. Eccole. Siamo noi.”
È la guerra dell’ubiquità, non dell’usabilità.
Meta corre con il fiato corto ma inarrestabile. Dopo l’integrazione silente, arriva l’app autonoma: Meta AI, finalmente una destinazione dichiarata. Qui Zuckerberg gioca la carta dell’intimità: “La tua AI personale”. Una frase così vuota da essere geniale. È tua, ma non puoi cambiarle i vestiti. È personale, ma conosce meglio le policy interne di Menlo Park che i tuoi gusti musicali.
Il tutto con un obiettivo dichiarato: diventare il punto di riferimento delle AI personali. Non assistenti. Non copiloti. Non strumenti. Compagni digitali. Quelli che ti parlano, ti conoscono, ti ricordano che il tuo ex ha cambiato stato sentimentale su Facebook.
C’è qualcosa di inquietante – e straordinariamente geniale – in questa narrativa. Perché Zuckerberg e Pichai non stanno vendendo solo tecnologia. Stanno riscrivendo l’ontologia del rapporto tra uomo e informazione. Stanno posizionando la GenAI come intermediario unico tra il nostro pensiero e il mondo esterno. Come se la realtà avesse bisogno di un interprete autorizzato.
E mentre le aziende corrono a implementare modelli di business sostenibili, le AI si insinuano. Senza domandare permesso, senza generare revenue chiare. Ma generando inevitabilità. E se non generi fatturato, l’unico valore che puoi vendere è la dipendenza.
Su WhatsApp, dice Susan Li, Meta AI cresce più in fretta. Il perché è ovvio: WhatsApp è l’ultima oasi non algoritmica per milioni di utenti. Era. Ora diventa un’altra porta per il grande fratello cognitivo. Un assistente che legge i tuoi messaggi, ti suggerisce risposte, magari domani controllerà i tuoi appuntamenti, dopodomani i tuoi pensieri.
In questa giostra grottesca, nessuno parla di verità o correttezza. Non c’è etica, solo efficienza predittiva. I problemi di disinformazione? Ci penseremo. I modelli di business? Arriveranno. L’impatto sulla società? Colpa della società, mica nostra.
La verità è che questa battaglia per la GenAI è un’operazione di egemonia cognitiva. Un assalto frontale al diritto di pensare per conto proprio, travestito da progresso.
Zuckerberg, nel suo stile asciutto da cyborg ottimista, ce lo dice chiaramente: “La nostra AI sarà la tua AI”. Come se l’avesse scritta Orwell, ma con più budget.
E forse è già tutto deciso. Forse siamo già utenti attivi, anche se non ci ricordiamo di aver cliccato “Accetta”.
La vera intelligenza artificiale? È far credere all’utente che abbia ancora una scelta.