Se l’universo fosse un’app, sarebbe maledettamente ben progettata. Zero crash, uptime millenario, interfaccia coerente, fisica che si comporta sempre nello stesso modo. È questo il problema.

Da oltre vent’anni, un manipolo di scienziati – un mix tra fisici quantistici stanchi, filosofi con troppo tempo libero e ingegneri in crisi esistenziale – ci sta dicendo che potremmo vivere dentro una simulazione. Non come una metafora spirituale da guru di Instagram, ma proprio una simulazione informatica vera e propria, alimentata da qualche entità iper-tecnologica che ci osserva con lo stesso disinteresse con cui noi guardiamo le formiche in un barattolo di vetro. O peggio, ci ignora completamente.

La keyword è simulazione, le parole che viaggiano con lei sono seconda legge della termodinamica e compressione algoritmica. Parole che fanno sudare i matematici e fanno eccitare i nerd. Perché quando Michael Vopson dell’Università di Portsmouth propone che l’universo sia governato da una specie di “algoritmo di compressione cosmica”, la cosa non suona poi così distante da quello che uno sviluppatore senior potrebbe proporre per ottimizzare un backend troppo verboso.

Vopson non è un pazzo isolato. È solo l’ultimo in una lunga catena di menti brillanti che hanno cercato di forzare la realtà a confessare la sua vera natura. L’universo, secondo lui, mostra un’ossessione quasi patologica per la simmetria. E chiunque abbia mai scritto codice lo sa: quando vedi simmetria ovunque, quando i pattern si ripetono, quando tutto sembra già visto, c’è un algoritmo dietro. Magari un algoritmo di compressione lossy che sacrifica dettagli irrilevanti per restituirti un’esperienza fluida.

È l’eco digitale dell’Allegoria della Caverna di Platone, ma con RTX attivato. Gli antichi vedevano ombre sul muro. Noi vediamo particelle subatomiche comportarsi in modo coerente con equazioni eleganti. Che differenza c’è, in fondo?

Nick Bostrom, filosofo di Oxford, nel 2003 ha buttato lì un’idea tanto semplice quanto disturbante: se esiste anche solo una civiltà in grado di simulare universi, allora è molto più probabile che noi siamo una di quelle simulazioni piuttosto che l’originale. La logica è ineccepibile. Se un sistema può creare infiniti sottosistemi, la probabilità di essere in uno di essi è infinitamente più alta rispetto all’essere nel sistema sorgente.

E se state pensando: “Ma non ci sono prove!” beh, esattamente. Nemmeno per il concetto di realtà oggettiva. O per la coscienza. O per l’infinito. Ma nessuno li chiama pseudoscienza, giusto? Il fatto è che la simulazione ha un problema di branding: puzza troppo di fantascienza, di Matrix, di elucubrazione da salotto di fine serata dopo troppo vino rosso. Ma non c’è nulla di meno pseudoscientifico di un’ipotesi che si può modellare, testare e falsificare. Il punto è: vogliamo davvero provarla?

Perché ogni volta che uno scienziato prova a cercare le “crepe nella matrice” – anomalie nella costante di Planck, variazioni nei raggi cosmici, glitch quantistici – tutto risulta maledettamente… coerente. È qui che nasce il sospetto più inquietante: forse l’universo è troppo perfetto. L’equilibrio delle forze fondamentali, l’apparente casualità che produce complessità, la ricorsività delle strutture dal micro al macro… tutto sembra ottimizzato. Troppo.

Vopson, con una punta di arroganza da fisico post-newtoniano, ha addirittura proposto una nuova versione della Seconda Legge della Termodinamica, in cui l’informazione diventa la vera entropia. Tradotto: il modo in cui l’universo conserva o distrugge informazione potrebbe essere il vero termometro dell’esistenza. E se questo flusso d’informazioni segue un pattern, un comportamento, un codice… allora potremmo davvero trovarci in una simulazione ultra-ottimizzata. Tipo GitHub Copilot, ma per la realtà.

Naturalmente, ogni volta che uno solleva l’ipotesi della simulazione, c’è l’accademico di turno che sbuffa, etichettandola come “tecno-religione”. Ma cosa sarebbe allora la cosmologia, se non una versione ben vestita del culto del Big Bang? Ogni teoria ultima sulla realtà ha il sapore dell’atto di fede. L’unica differenza è la quantità di equazioni a sostegno.

C’è chi cerca prove nella fisica quantistica, chi cerca bug nei numeri primi, chi addirittura pensa che certi fenomeni paranormali siano “dati sporchi”, rumore lasciato da un rendering mal gestito. Ma la verità è che, come in ogni buona simulazione, il sistema ha un robusto meccanismo di self-consistency. Nessuna anomalia è mai abbastanza grande da invalidare tutto. Proprio come un buon video in streaming: puoi avere qualche pixel morto, ma la narrazione continua.

Ironia vuole che, se la teoria fosse vera, ogni nostro tentativo di scoprirlo sarebbe già previsto dal codice. Ogni nostro dubbio, ogni paper pubblicato, ogni esperimento… tutto sarebbe parte dello script. Un sandbox filosofico con restrizioni di debug. E questa è la parte più comica: anche se trovassimo la prova, potremmo scoprire che è lì solo perché dovevamo trovarla. Causata, predeterminata, inscatolata.

Il che porta alla domanda più odiosa: e quindi? Supponiamo che domani qualcuno dimostri che viviamo in una simulazione. E allora? Cambia qualcosa nei tassi d’interesse? Nell’IVA? Nel mutuo? No. Ma cambia qualcosa nella narrativa collettiva. Perché ci costringe ad affrontare una verità scomoda: la realtà è un concetto negoziabile, e la nostra coscienza potrebbe essere solo una funzione di rendering.

Ma forse, in fondo, è questo che vogliamo: un universo ordinato, elegante, simmetrico. Anche se fosse finto. Perché il vero incubo non è scoprire che viviamo in una simulazione. È scoprire che non c’è nessuno a programmare. Nessun codice. Solo caos. E onestamente, preferisco pensare di essere un bit ben piazzato in un sistema ben scritto, piuttosto che una fluttuazione casuale in un vuoto ostile.

Chiudiamo con una provocazione: e se l’unico vero bug del sistema fosse proprio l’intuizione che siamo in una simulazione?

Un glitch, forse. O un Easter egg.

Gli scettici si aggrappano alla parola “falsificabilità” come un talismano. Giustamente. La scienza senza possibilità di confutazione è fede. Ma qui il problema è più subdolo: se la simulazione è ben fatta, non puoi accorgerti di essere dentro. È come cercare di spegnere Windows cliccando dall’interno del desktop. Non funziona. Non puoi spegnere l’hardware da un software prigioniero.

E qui arriva la beffa filosofica. Platone, nel mito della caverna, lo aveva già capito: la percezione non è la realtà. È una proiezione. Un’ombra. E oggi, con GPU quantistiche, ambienti virtuali fotorealistici e modelli di intelligenza artificiale sempre più “coscienti”, la sua caverna sembra un centro dati della Silicon Valley. L’idea che ciò che chiamiamo “realtà” sia solo un layer d’interfaccia, come una GUI cosmica, è tutt’altro che peregrina.

Ma cosa cambia, poi? Anche se fossimo codice, chi se ne importa? Continueremo a vivere, soffrire, amare, fallire, morire. Cambia tutto e niente. Perché, come diceva Alan Watts, “il solo modo per dare un senso alla realtà è immergersi in essa”. Non puoi uscire dal gioco, ma puoi giocare bene. E se c’è un “game designer” là fuori, gli piacerà vedere che hai capito il punto.

Sì, serve più ricerca. Serve più coraggio. E meno accademici terrorizzati all’idea di sembrare ridicoli. L’Universo non è un ente serio. È un trickster, un programmatore ironico che si diverte con bug quantistici e glitch nella coscienza.

Alla fine, come sempre, il vero atto rivoluzionario è farsi una domanda che nessuno osa più porre: e se fosse tutto un gioco?

A quel punto, tanto vale giocarsela bene.