C’è qualcosa di sublime e tragicomico nel vedere il New York Times – che solo pochi mesi fa gridava allo scippo intellettuale puntando il dito contro OpenAI e Microsoft – ora stringere un patto con l’altro colosso della Silicon Valley, Amazon. Non per vendere copie, ovviamente, quelle sono un ricordo sbiadito, ma per fornire contenuti alla macchina famelica dell’intelligenza artificiale. Notizie, ricette, cronache sportive: tutto in pasto ad Alexa+ e ai modelli linguistici che l’e-commerce ha deciso di rispolverare per la sua guerra (tardiva) nell’arena dell’AI generativa.
“Allinea il nostro lavoro a un approccio deliberato che garantisce il giusto valore,” recita il memo ai dipendenti firmato da Meredith Kopit Levien, CEO del Times. Traduzione: meglio vendere che essere saccheggiati gratis. È il principio del “se non puoi batterli, fatturaci sopra”.
Ma non ci si illuda: non è un cambio di paradigma illuminato, è una transazione mascherata da resistenza morale. Dopo mesi a gridare “al ladro!” nella corte federale, il Times stringe un accordo (finanziariamente non rivelato, ovviamente) che lo rende parte attiva e consenziente della stessa dinamica che aveva denunciato. E intanto la causa contro OpenAI e Microsoft prosegue. Come dire: le regole valgono solo se non mi paghi.
Nel concreto, Amazon avrà accesso al contenuto del giornale per potenziare Alexa+, il suo assistente generativo, e i suoi foundation models. Un ecosistema, va detto, che finora è stato più noto per vendere pile e pentole che per innovare nella linguistica computazionale. Ma adesso Amazon vuole la sua fetta di torta AI, e servono dati – pardon, contenuti – buoni, affidabili, ben scritti. Chi meglio di un’istituzione come il NYT?
Certo, l’accordo include solo “estratti” e “sintesi”, che saranno visualizzati in tempo reale sui dispositivi Amazon. Ma il vero affare non è nella fruizione diretta: è nei modelli. Quei dati saranno usati per addestrare le reti neurali, per far capire all’AI come suona una notizia ben fatta, una recensione saporita, un’analisi sportiva arguta. E se domani Alexa+ sarà in grado di spiegarti la geopolitica ucraina o come si cucina un boeuf bourguignon meglio di un redattore umano, dovremo ringraziare (anche) il New York Times.
Ironico, considerando che è la stessa testata che accusa OpenAI di “creare prodotti che sostituiscono il Times e rubano pubblico”. Adesso quei prodotti li alimenta in prima persona. Ecco cosa succede quando la carta stampata cerca di restare rilevante nel secolo dell’algoritmo: si trasforma in benzina per le macchine.
Sul fronte Amazon, il tempismo è perfetto. Alexa+, powered by Claude AI di Anthropic, è appena stata lanciata su oltre 100.000 dispositivi. La versione “next-gen” dell’assistente vocale, più fluida, più contestuale, più umana. Mancava solo un’anima giornalistica. Adesso ce l’ha, presa in leasing da Manhattan.
È la strategia della “data monetization 2.0”. Non basta più tracciare il comportamento degli utenti: ora si vendono interi corpus testuali, brandati, credibili, pronti all’uso. La differenza tra furto e licenza? Una fattura.
Eppure, questo accordo puzza di resa. È come se il NYT avesse deciso che, nel nuovo ordine informativo guidato dall’AI, è meglio essere una batteria che resiste nella rete che una voce che urla nel vuoto. Meglio essere addestratori di modelli che vittime di scraping. Ma a quale prezzo? Perché ogni riga “concessa” è una riga che domani verrà restituita dalla macchina, parafrasata, ma senza firma, senza contesto, senza click. Il giornalismo, come lo conosciamo, si smaterializza.
La beffa suprema? L’accordo con Amazon è “multi-year”, ma senza dettagli pubblici. Una trasparenza opaca, in perfetto stile Silicon Valley. Difficile non vedere una sorta di pre-accordo di pace commerciale. Il messaggio è chiaro: se paghi, puoi. E se sei abbastanza grosso, puoi anche negoziare i termini della tua futura irrilevanza editoriale.
Intanto, in tribunale, la causa contro OpenAI e Microsoft prosegue. Perché una cosa è allenare modelli con articoli “rubati”, altra cosa è firmare un accordo in piena regola. Ma se il contenuto è lo stesso, la funzione pure, e l’effetto finale identico, che differenza c’è? Solo legale, non sostanziale.
La verità è che l’industria dei media sta vivendo la sindrome dell’“AI Stockholm”. Si ribella contro chi la sfrutta, ma si innamora di chi la paga. Per sopravvivere nel nuovo ecosistema digitale, accetta di diventare il foraggio di un’intelligenza non umana. È il giornalismo che si prostituisce alla tecnologia che lo ha disintermediato.
Eppure, è difficile biasimarli. Il modello pubblicitario è collassato. Gli abbonamenti sono in stagnazione. E le AI generative sono la nuova miniera d’oro: chi ha dati di qualità, ora ha potere contrattuale. Ma attenzione, è un potere tossico. Perché più il NYT nutre l’AI, più l’AI potrà replicare, semplificare, sostituire. E il giornale diventa un oracolo che insegna agli automi a predire la sua stessa estinzione.
Quindi no, non è una “svolta” strategica. È un compromesso. Elegante, ben confezionato, ma pur sempre un compromesso. Un modo per galleggiare ancora qualche anno, magari finanziando la battaglia legale contro gli altri, mentre si danza con il diavolo in forma di smile Prime.
“Il futuro è già qui solo che non è equamente distribuito,” diceva William Gibson. Ma ora sappiamo anche che ha firmato un contratto di licensing.