Nel mondo surreale della governance americana, dove ormai la Silicon Valley è più presente nei corridoi del potere che nelle linee di codice, il sipario è appena caduto su un altro atto tragicomico: Elon Musk abbandona l’amministrazione Trump. Ma il vero spettacolo inizia dopo il suo tweet.

Meno di 24 ore e la catena di dimissioni diventa virale. Steve Davis, genio austero della razionalizzazione economica e uomo ombra di Musk da anni, chiude la porta. Lo segue James Burnham, avvocato e stratega giuridico dietro DOGE (che non è la crypto, tranquilli, ma il fantomatico Dipartimento per l’Efficienza Governativa). Infine, Katie Miller, portavoce con pedigree trumpiano, che ha deciso di saltare giù dal carro per imbarcarsi direttamente sull’astronave Musk.

Ora, immaginatevi la scena: in una settimana già gravida di attacchi alla fiscalità federale, di atti esecutivi firmati con il pennarello indelebile e di consuete piroette politiche, uno dei pochissimi tentativi di rendere “efficiente” la burocrazia americana implode sotto i colpi dell’ego imprenditoriale. E tutti fingono stupore.

DOGE, un acronimo costruito per suonare familiare e tecnocratico, era finito in prima pagina più per i suoi scivoloni legali che per i risparmi ottenuti. Un’idea nata nel ventre torbido della deregolamentazione trumpiana, progettata come scalata al cuore della macchina amministrativa statunitense. Riduzione dei costi, semplificazione, digitalizzazione. Belle parole, che al primo impatto con la realtà diventano “cause federali multiple” e “opposizione interna”.

Con Musk fuori dai giochi e i suoi fedelissimi già a bordo del prossimo razzo diretto verso Marte o verso qualche startup di governance algoritmica, la domanda vera è: che fine fa l’efficienza? Chi prenderà il timone di questa astronave burocratica impantanata nel pantano della politica?

Il tempismo è perfetto: Musk si ritira con un tweet su X, ovvero l’ennesimo tentativo di reinventare l’internet come se fosse una Tesla connessa all’NSA. I suoi motivi? Secondo lui, la nuova legge fiscale presidenziale ha rovinato il fragile castello costruito da DOGE. Traduzione: hanno tagliato le sue libertà operative. E se Elon non può fare come gli pare, Elon se ne va.

Davis, Burnham e Miller – una triade che suonava come un board di una SPAC hanno capito il messaggio: chi resta nella nave affonda con essa. Chi scappa, forse sale a bordo di una nuova mitologia da costruire. Magari quella in cui Musk riscrive il codice sorgente dello Stato moderno tra un esperimento di Neuralink e un lancio di Starship.

Ma l’ironia più sottile è nel silenzio. Burnham e Miller non rilasciano dichiarazioni, Davis irraggiungibile. Il potere vero si esercita senza parlare, ma si capisce lo stesso. Quando le pedine chiave abbandonano il gioco senza salutare, il messaggio è chiaro: la partita è truccata, e il banco non è più interessante.

Qualcuno, in un angolo del Congresso, probabilmente sta già brindando alla fine di DOGE. Troppo simile a una creatura tecnocratica per piacere ai populisti, troppo politicamente inquinata per essere amata dai riformisti. Ma c’è anche chi osserva con preoccupazione: chi si occuperà ora di riformare la burocrazia federale? Di tagliare gli sprechi, digitalizzare i processi, scardinare i feudi ministeriali?

La verità è che nessuno vuole davvero farlo. L’efficienza è un concetto vendibile solo quando non disturba gli interessi consolidati. E Musk, con la sua arroganza algoritmica, aveva provato a scardinarli troppo in fretta, senza passare per le liturgie del potere tradizionale. Non ha funzionato.

Intanto, Miller andrà a lavorare per Musk a tempo pieno. Chissà, magari a coordinare il dipartimento PR della nuova repubblica spaziale. Burnham? Forse già sta redigendo il contratto di fondazione di una DAO governativa. Davis? Probabilmente a progettare un tunnel sotto Washington per scappare dalla mediocrità.

Chi pensa che tutto questo sia solo gossip politico ha capito poco. È in atto una mutazione del potere. La fusione tra elite tech e potere esecutivo, già ampiamente digerita in California, si scontra con le scorie radioattive del sistema federale. E quando il sistema rigetta l’impianto, l’unica cosa da fare è staccare la spina. Magari con un post di tre righe e un razzo in partenza.

Quindi no, non è solo l’ennesimo colpo di scena nell’epopea trumpiana. È un sintomo. Di un sistema che non sa più se vuole essere governato da uomini, da algoritmi o da meme coin. E se DOGE era un acronimo studiato per vendere efficienza, oggi è solo un cane stanco che abbaia alla luna, mentre i suoi padroni saltano sulla prossima navicella.

«Se non riesci a riformare il sistema da dentro, costruiscine uno nuovo fuori». Musk non lo ha detto esplicitamente. Ma lo sta già facendo.