Un pedone cade. Uno nuovo appare.
Non è scacchi, è geopolitica d’impresa.
Mentre tutti si affannano a interpretare l’ultima mossa di OpenAI o a prevedere chi detterà legge nella prossima ondata di modelli LLM, Microsoft si muove in silenzio ma chirurgicamente su un’altra scacchiera: quella della politica americana. Con una strategia così lucida da far impallidire persino i manuali di game theory, il colosso di Redmond piazza le sue torri legali con perfetta simmetria tra repubblicani e democratici. Una sinfonia di lobbying istituzionale mascherata da innocua riorganizzazione HR.
Lisa Monaco, ex legale dell’amministrazione Biden, viene arruolata per guidare la politica globale di Microsoft. Contemporaneamente, CJ Mahoney già vice rappresentante commerciale durante il primo mandato di Trump riceve la promozione a General Counsel per Azure, il cuore pulsante dell’impero cloud dell’azienda. Una pedina da una parte, una pedina dall’altra. Equilibrio perfetto. Bipartisan. O, più cinicamente, bi-interesse.
Non è solo assunzione di talenti: è penetrazione sistemica. Monaco ha il pedigree perfetto per mantenere caldo il filo rosso con l’attuale amministrazione, soprattutto nei dossier più sensibili come la cybersecurity governativa e l’espansione infrastrutturale dei data center. Mahoney, invece, rappresenta il ponte con la probabile prossima stagione politica americana, dove il ritorno di Trump o di un suo surrogato è tutt’altro che improbabile. In un’epoca dove gli algoritmi apprendono dai dati, le big tech imparano dalla storia: la neutralità è una favola per gli ingenui, l’adattabilità è la vera supremazia.
La keyword che danza dietro ogni riga è “influenza”. Le secondarie: “cloud sovrano” e “intelligenza artificiale governativa”.
La partita non è più vendere software. È decidere chi lo userà, a quali condizioni, e con quali implicazioni strategiche. Azure non è solo una piattaforma: è l’infrastruttura digitale su cui si appoggerà la futura governance americana, dai flussi energetici dei data center all’addestramento dei modelli di AI utilizzati in ambito federale. E se l’amministrazione cambia, beh… Microsoft sarà già lì, col cavallo giusto nella stalla.
Brad Smith, Presidente dell’azienda e mente dietro l’operazione, ha dichiarato candidamente che anche con Trump al potere si aprono opportunità: più energia per i data center, più contratti per software AI. L’ideologia? Marginale. La tecnologia non è mai neutrale, ma chi la vende può permettersi di sembrarlo.
È l’equivalente digitale di Kissinger: realpolitik pura con UI pulita.
Nella guerra fredda dei dati, Microsoft si comporta come un’entità statale. Non più solo impresa privata, ma attore geopolitico. Come un tempo la Halliburton con il petrolio, oggi Redmond si muove sul terreno del cloud come se fosse un’estensione del deep state. E il bello è che funziona: gli apparati governativi, ormai iperdipendenti dai servizi digitali, non possono permettersi una rottura. La vendor lock-in non è solo tecnica: è strategica.
Ironico che proprio chi si riempie la bocca di “sovranità digitale” sia costretto, nei fatti, a sottomettersi alle dinamiche di Big Tech. Ma il potere non è mai dove sembra, e chi lo gestisce non indossa più cravatte grigie a Capitol Hill, ma badge NFC nei corridoi di Redmond.
A ben vedere, queste nomine sono una danza di potere. Una danza che serve a dire: non importa chi vinca le elezioni, noi siamo già al tavolo.
La scacchiera non cambia.
Cambiano solo i pedoni.
E Microsoft ha deciso di giocarli tutti.