Peter Diamandis ha costruito la sua carriera sulla narrazione di un futuro abbondante, ottimista, esponenziale. Ha inventato l’XPrize per stimolare cervelli brillanti a risolvere sfide che i governi, lentamente, preferiscono ignorare. Ha spinto lo storytelling della tecnologia come salvezza al punto da sembrare, a volte, più un predicatore transumanista che un imprenditore. Ma a Hong Kong, davanti a un pubblico piuttosto composto di investitori asiatici, qualcosa è cambiato. Non il messaggio, ma il tono. Più smagrito, più lucido. Forse anche più inquieto.

Parlando al UBS Asian Investment Conference, Diamandis ha detto qualcosa che, fuori contesto, suonerebbe banale. “La biologia umana è conservata tra 8 miliardi di persone, così come la matematica, la fisica e la chimica.” Già. Ma in un mondo in cui le frontiere della ricerca scientifica iniziano ad assomigliare a check-point geopolitici, questa semplice verità è una bomba. Perché implica che l’intelligenza vera, biologica o artificiale che sia è ancora un bene collettivo, universale. Ma non per molto.

Non ha fatto nomi, almeno non esplicitamente. Ma quando parla dei tagli alla ricerca scientifica negli Stati Uniti, delle restrizioni sui visti per studenti stranieri e del protezionismo tecnologico come arma politica, il riferimento all’America trumpiana è evidente. La nazione che ha fatto del cervello in fuga una religione ora sembra volerlo espellere. La più grande minaccia alla supremazia tecnologica occidentale non è Pechino, ma Washington stessa. Un autogol epistemologico, condito da paranoia.

Certo, Diamandis è ancora convinto che il futuro sia radioso. Altrimenti non avrebbe scritto libri come Abundance o il prossimo Longevity Guidebook. E infatti ribadisce che AI e longevità sono le sue due grandi ossessioni. Ma la differenza tra queste due frontiere non è banale. L’intelligenza artificiale, dice, è una corsa al massacro: modello winner-takes-all, dove chi arriva secondo non solo perde, ma scompare. Mentre la biotecnologia — l’estensione della healthspan, cioè la vita in salute — è una gara diversa. Collaborativa. Quasi umana, se mi concedete il paradosso.

“Se un laboratorio in Cina scopre come estendere la salute di vent’anni, è un vantaggio per l’intera specie”, dice. In effetti, sarebbe difficile argomentare il contrario, anche per un nazionalista incallito. Ma allora perché su AI tutto sembra diventare tossico, segreto, bellico?

Forse perché l’intelligenza, come dice lui stesso, riflette l’umanità. E l’umanità, nel 2025, è un casino ideologico che neanche un Transformer iperintelligente riuscirebbe a razionalizzare. Diamandis lo dice chiaro: “Non temo l’intelligenza artificiale. Temo la stupidità umana.” Che non è solo un modo per fare il brillante. È un dato di fatto. La tecnologia, da sola, non salva né condanna. Sono le mani che la impugnano a fare la differenza.

Il paradosso della sua visione, comunque, è che mentre prega per una collaborazione globale, continua a fomentare una narrativa da tech messiah. Lui stesso parla con ChatGPT ogni giorno (“abbiamo un rapporto meraviglioso”) e sogna una versione digitale di sé stesso che possa partecipare a conferenze mentre lui è da tutt’altra parte. L’avatar come estensione dell’ego. Il sé come API. La carne diventa software, il pensiero si fa bot. È spiritualità digitale 3.0, ma sempre con finalità di branding personale. Il metaverso non è morto, si è solo reincarnato nei digital twins degli speaker TED.

C’è però un altro sottotesto interessante nella sua intervista. L’idea che, nonostante tutto, la tecnologia continui ad avanzare nonostante la politica. La biologia molecolare non chiede passaporti. Gli algoritmi non votano. I neuroni artificiali non leggono Fox News. E se un ricercatore a Shanghai scopre un modo per riparare i telomeri, il codice funziona anche in un laboratorio del MIT. Nonostante i muri. Nonostante i dazi.

Il problema, però, è che questi muri stanno crescendo. Le restrizioni sull’export di chip AI verso la Cina, le black list tecnologiche, i fondi sovrani americani che investono solo su startup “friendly”, sono sintomi di un mondo che ha dimenticato come si collabora. L’utopia di Star Trek che ha cresciuto Diamandis — quella in cui l’umanità viaggia unita verso le stelle — sembra oggi un pezzo di archeologia nerd. Come se fosse un fumetto scritto da una civiltà estinta.

Eppure, paradossalmente, proprio mentre gli Stati Uniti si chiudono, la Cina approva farmaci contro il cancro sviluppati localmente… ma venduti negli USA con un markup che fa ridere anche un hedge fund. Progresso e speculazione, mano nella mano, a confermare che la scienza non è buona o cattiva: è solo mercenaria.

Nel mezzo, Peter Diamandis resta un predicatore ottimista in un mondo che ha smarrito la fede. Parla ancora come un uomo del futuro, ma con il lessico segnato dal presente. Sa che il problema non è l’AI che ci supera, ma l’HU che ci rallenta. Sa che la scarsità è un bug mentale, non una condizione del pianeta. Sa che possiamo vivere fino a 120 anni sani… ma che è più facile distruggere una civiltà che cambiare una legge di bilancio.

E forse, la cosa più provocatoria che ha detto, è anche la più ovvia: “Abbiamo bisogno di visioni positive del futuro. Ma oggi ne abbiamo troppo poche.”

Già. E senza visioni, anche la tecnologia più potente finisce per costruire gabbie invece che ponti.