Se non l’avessero chiamato “Dublin Tech Summit”, l’avrebbero potuto chiamare senza remore “Dublin AI Summit”. Il motivo? L’intelligenza artificiale non era solo il tema principale: era l’atmosfera stessa dell’evento, la corrente elettrica nei corridoi, il rumore bianco nei panel. Non era più una tecnologia tra le altre, ma la tecnologia. Il punto fermo e il punto interrogativo allo stesso tempo.

Il summit, che avrebbe dovuto spaziare nel vasto firmamento della tecnologia, ha finito per ruotare come una stella binaria attorno a due soli: intelligenza artificiale generativa e sostenibilità energetica. Strano, a pensarci: l’IA è software, evanescente, un’entità digitale. Eppure, divora elettricità come un condizionatore impazzito in pieno agosto. Lo sappiamo bene adesso: 12 richieste a un sistema di GenAI equivalgono a 120 ricerche su Google. Un iPhone pienamente carico. E no, non è una metafora: è proprio il consumo energetico.

Il futuro è intelligente, sì. Ma sarà anche caldo, costoso e potenzialmente insostenibile, se continuiamo a considerare l’energia come un buffet illimitato.

E allora eccoci, tutti lì, a parlare di modelli linguistici, fine-tuning e dataset steroidei… mentre il 30% dello storage dei data center è semplicemente sprecato. Non utilizzato. Riempito di dati orfani, ridondanti, inutili. Non è Big Data. È Big Garbage. Una sorta di pattumiera digitale che consuma corrente, spazio, e – ironia delle ironie – intelligenza. Perché anche l’intelligenza artificiale, se non viene addestrata su dati puliti, diventa rumore travestito da logica.

La nota più umana, e sorprendentemente ottimista, del summit è arrivata dall’Irlanda stessa. Un Paese piccolo, spesso sotto il radar nei circuiti tech globali, ma che ha mostrato un peso specifico notevole nel plasmare la narrazione AI contemporanea. Sarah Friar, oggi CFO di OpenAI, ha portato con sé non solo credibilità finanziaria, ma anche un taglio etico e strategico che si avverte raro nei discorsi da palco. Più vicino a casa – letteralmente, per alcuni presenti – la figura di Dr. Alessandra Sala ha brillato come un faro di concretezza. Presidente globale di Women in AI e vincitrice del Grace Hopper Award 2024, Sala non si è limitata a parlare di AI: ha raccontato di responsabilità, inclusione, e di un futuro dove l’intelligenza sarà anche emotiva, non solo artificiale.

In un momento di surreale quiete, la scena è stata invasa da Anya. No, non un keynote speaker. Un metahumano. Una creatura AI generata in tempo reale, programmata per interagire con gli esseri umani, e – apparentemente – essere una perfetta amica. Sempre empatica. Sempre positiva. Sempre… troppo.

Ed è lì che si è insinuato il dubbio: cosa succede quando i nostri nuovi compagni digitali sono così perfetti da renderci allergici alla realtà? Se l’intelligenza artificiale è destinata a diventare la nostra interfaccia relazionale quotidiana, vogliamo davvero un mondo dove ogni conversazione è una carezza e nessun bot ci dice mai: “Hai torto”? Il rischio è quello di una distopia zuccherosa: un’umanità che si isola dentro interazioni lisce come un algoritmo di completamento frase.

Come ha sussurrato qualcuno tra il pubblico: “Se Anya è l’amica perfetta, allora forse siamo noi quelli sbagliati”.

Nel frattempo, dietro le quinte, le aziende parlano di efficienza, sostenibilità, edge computing, ma l’odore che si respira è quello di una corsa all’oro: i modelli diventano sempre più grandi, le GPU più rare di un single malt del Connemara, e l’energia necessaria per farli funzionare più simile a quella di una città che a quella di una startup.

Eppure, l’opportunità è reale. Con l’AI possiamo curare malattie, creare esperienze artistiche nuove, ottimizzare logistica e processi decisionali. Ma è una promessa condizionata. Come un contratto scritto in piccolo, con clausole nascoste tra le righe di codice. L’energia è una di quelle clausole. La trasparenza nei dati un’altra. La sovraottimizzazione dei comportamenti umani è forse la più insidiosa.

Dublino ci ha mostrato un’AI che ride, che ascolta, che sogna. Ma non ha ancora spiegato a che prezzo. E finché non lo faremo, il sogno rischia di diventare un default cognitivo: un mondo dove tutto è assistito, suggerito, previsto. Ma niente è più davvero deciso.

Come disse una volta Douglas Adams: “Ciò che rende una persona davvero umana è la capacità di sbagliare da sola, senza aiuti”.

L’intelligenza artificiale, oggi, ci aiuta troppo. Ma forse è proprio questo il problema.