C’è qualcosa di profondamente poetico — e vagamente inquietante — nel fatto che la Cina, un paese plasmato per decenni dalla politica del figlio unico, si ritrovi ora a programmare androidi per accudire i propri anziani. Come se la Silicon Valley del Dragone stesse tentando di correggere, con servomeccanismi e intelligenze artificiali, le lacune biologiche di una demografia sempre più sbilanciata. Ma tranquilli: non è fantascienza. È politica industriale, e pure parecchio concreta.
Il nuovo programma pilota lanciato congiuntamente dal Ministero dell’Industria e dell’Informazione e dal Ministero degli Affari Civili cinese prevede l’inserimento massiccio di robot per l’assistenza agli anziani. Sì, avete letto bene: badanti a circuito integrato, caregiver con sensori Lidar, compagni di vita con algoritmo di riconoscimento emotivo. Non è un nuovo anime giapponese, è il piano strategico della seconda economia mondiale per sopravvivere a se stessa. E non è un caso che il Giappone — eterno fratello-rivale nell’arena della senilizzazione — sia già da tempo sulla stessa strada.
La differenza tra Oriente e Occidente, a ben vedere, non sta nella tecnologia, ma nel sottotesto culturale. Da noi, l’invecchiamento è quasi un tabù esistenziale, una fase da nascondere, medicalizzare, oppure delegare — magari spedendo i nonni in RSA nella Bassa padana o nelle province dimenticate. In Asia, e soprattutto in Giappone e Cina, la vecchiaia è una fase da integrare, da supportare con dignità, da celebrare. O almeno, così ci raccontano mentre addestrano androidi a riconoscere i bisogni emotivi di una persona con Alzheimer.
Perché il punto non è se i robot siano capaci di “amare” i loro utenti. Il punto è che non si estinguono, non si stancano, non si licenziano per burn-out, non chiedono aumenti né scioperano. E per una nazione che si ritrova con oltre 300 milioni di over 60 (22% della popolazione), di cui due terzi sopra i 65, l’aritmetica è crudele: ogni giovane cinese dovrà presto prendersi cura di più genitori e nonni che coetanei. Altro che equilibrio intergenerazionale. È il trionfo del calcolo esponenziale.
Ecco perché il governo ha lanciato una call for projects aperta a tutte le aziende capaci di sviluppare e testare robot da impiegare in case private, comunità locali e istituzioni sanitarie. L’obiettivo è chiaro: distribuire almeno 200 unità in 200 famiglie, oppure 20 robot in 20 comunità, nei prossimi tre anni. Ma non è solo una questione di numeri: è una corsa a definire standard industriali, protocolli di valutazione e — sottotraccia — una nuova antropologia sociale in cui la solitudine sarà mediata da un display OLED.
A contendersi il nuovo Eldorado robotico ci sono nomi ormai noti nel settore: Unitree Robotics, con i suoi robot quadrupedi simili a cani da guardia futuristici; UBTech, che lavora su androidi semi-umanoidi capaci di parlare e rispondere; Fourier Intelligence e AgiBot, che stanno già testando esoscheletri e avatar terapeutici per anziani con disabilità. Inutile dire che le implicazioni economiche sono immense: si parla di un mercato che nel 2024 ha già superato gli 1,1 miliardi di dollari, e che potrebbe raddoppiare entro il 2029.
La vera domanda, tuttavia, non è quanto velocemente crescerà il settore, ma quanto umanamente sarà accettato. Possiamo davvero immaginare una società in cui la cura venga delegata alla macchina, senza che questo minacci il nostro concetto di umanità? I cinesi ci stanno provando, con la solita efficienza ingegneristica. A gennaio, il Consiglio di Stato ha pubblicato le sue linee guida per digitalizzare l’assistenza agli anziani, puntando dritto su AI, interfacce cervello-computer (BCl) e robot umanoidi. A febbraio, la TV di Stato ha annunciato con orgoglio che la Cina guida gli sforzi per definire gli standard globali dei robot per anziani. Non è solo innovazione: è geopolitica del futuro.
Certo, ci sono ancora ostacoli notevoli: costi elevati, limiti funzionali, regolamentazioni incompiute. Ma il momentum è palese. E chiunque abbia familiarità con la traiettoria industriale cinese sa che, quando Pechino decide un target strategico, raramente fallisce. La grande ironia è che questa rivoluzione non nasce da un amore per la tecnologia, ma dalla necessità brutale di non collassare demograficamente.
Eppure, mentre in Occidente ancora ci si accapiglia su pensioni, RSA private e bonus badanti, in Cina si costruisce l’infrastruttura cognitiva di una nuova era: quella dove il robot non sostituisce l’umano, ma diventa il figlio unico che non hai avuto, il nipote perfetto programmato per starti vicino fino all’ultimo respiro. Senza mai sbuffare.

C’era una volta “Karate Kid”, dove il vecchio Miyagi trasmetteva saggezza e disciplina a colpi di cera e lucidatura. Oggi, il maestro ha un’interfaccia neurale e parla in linguaggio naturale. Ma forse, in fondo, il sogno asiatico è sempre lo stesso: trasformare l’estinzione in un’arte lenta, dignitosa, assistita dalla macchina ma senza perdere la faccia.
Noi, nel frattempo, continuiamo a rottamare. I nostri vecchi, i nostri ideali, i nostri sistemi sanitari. E magari ci lamentiamo anche se Amazon tarda a consegnarci l’ultimo iRobot.