Huawei, il colosso cinese delle telecomunicazioni che da anni è sotto l’occhio del ciclone geopolitico, ammette candidamente un fatto che fa tremare gli ingenui. I suoi chip Ascend, per quanto presentati come meraviglie della tecnologia, sono ancora “una generazione” dietro quelli statunitensi. Ma attenzione: non è la fine del mondo, né la resa incondizionata di Pechino alla supremazia tecnologica d’oltreoceano. Anzi, l’arte di arrangiarsi con metodi “non convenzionali” come stacking e clustering promette performance paragonabili ai giganti del settore. Una magia tutta cinese, fatta di impilamenti di chiplet brevettati che rendono il processore più compatto, più furbo, più scalabile.
Questa confessione arriva direttamente da Ren Zhengfei, il fondatore di Huawei, nel contesto di un’intervista di copertina sul People’s Daily, l’organo ufficiale del Partito Comunista. Primo a rompere il silenzio dopo il lancio di ChatGPT e la nuova ondata di sanzioni USA, Ren non si limita a una difesa d’ufficio. Non nasconde le difficoltà e riconosce che la tecnologia made in USA è “una generazione avanti”, ma rivendica con veemenza la capacità della Cina di colmare il gap con ingegnose soluzioni tecniche. E, soprattutto, sottolinea la forza di un ecosistema nazionale che ha ben altri vantaggi competitivi: centinaia di milioni di giovani, una rete elettrica robusta e una infrastruttura di telecomunicazioni che, a suo dire, è la più sviluppata al mondo.
Ironico che Ren parli di “potere, infrastrutture, carbone e farmaceutica” come i veri destinatari dell’intelligenza artificiale, suggerendo che l’algoritmo non è più roba da nerd informatici ma sta per invadere settori ben più concreti e tradizionali. È l’idea di un’AI che non si limita a modelli astratti o a chiacchiere da Silicon Valley, ma che si innesta profondamente nel tessuto produttivo cinese, trasformando fabbriche e industrie.
Washington prova a inasprire le restrizioni tecnologiche, a limitare la diffusione dei chip Ascend in tutto il mondo, eppure Ren non sembra impressionato. “Huawei è solo una delle tante aziende cinesi nel settore dei chip”, precisa quasi con sufficienza. “Gli Stati Uniti esagerano i nostri successi, ma noi sappiamo di avere un ritardo su alcuni fronti.” Però poi aggiunge una frase che suona come un manifesto: “Possiamo compensare la fisica che manca con la matematica, usare metodi fuori dalla legge di Moore per compensare la legge di Moore, sfruttare il calcolo in cluster per superare i limiti di un singolo chip”. Tradotto: non serve essere i più forti in un singolo componente, se poi si è i migliori nell’ingegneria del sistema.
In pratica, Huawei sta mettendo in campo una strategia che sfida la tradizionale corsa al chip più potente. Se la miniaturizzazione e la densità del transistor rallentano, si corre di fantasia. È una tattica da scacchista che pensa a più mosse avanti, e usa la matematica, la fisica applicata e l’ingegneria di sistema per aggirare i limiti hardware.
La partita non è solo commerciale, è anche culturale e strategica. Ren parla dell’investimento di Huawei: un terzo dei 180 miliardi di yuan annui in ricerca e sviluppo non viene nemmeno calcolato nei risultati immediati, perché va alla ricerca fondamentale. Non è un dettaglio: è una dichiarazione politica e scientifica insieme. Se la Cina vuole giocare nella Champions League dell’innovazione, non basta inseguire il prodotto finito, bisogna investire nella teoria, nella scienza pura. Un modo elegante per dire che senza investimenti strutturali la Cina resterà sempre il cliente a caccia di tecnologie altrui.
E allora questa intervista, oltre a essere un atto di sfida, è un manifesto sul futuro dell’AI in Cina. Non è un caso che il dibattito sia esploso su Weibo, con il popolo digitale cinese che si riversa sotto l’hashtag #PeoplesDailyReporterTalksToRen. Una conferma che la battaglia tecnologica non è più confinata a qualche laboratorio isolato, ma è diventata un tema di massa, di interesse nazionale e di orgoglio patriottico.
Ren fa capire che non si tratta solo di chip, ma di un sistema: il grande vantaggio cinese sta nell’infrastruttura di rete, nella disponibilità di energia e nell’immensa base di utenti che possono alimentare l’AI con dati e sperimentazioni. Questo è un colosso difficilmente replicabile da altri Paesi.
Le restrizioni di Washington possono tentare di soffocare Huawei, ma sono destinate a fallire nell’impedire la corsa della Cina verso una nuova rivoluzione tecnologica. L’intelligenza artificiale, per Ren, è l’ultima vera rivoluzione tecnologica, sulla scia della fusione nucleare come fonte pulita di energia. Un’ambizione che ha bisogno di più del semplice hardware: serve un ecosistema completo che coinvolge persone, reti, energia e know-how multidisciplinare.
Ecco quindi la vera sfida per il mondo tecnologico: smettere di guardare alla potenza del singolo chip come unico metro di giudizio, e cominciare a capire la partita complessa dell’integrazione di sistemi, dati e infrastrutture. Se la Cina ha qualcosa da insegnarci, è che l’intelligenza artificiale non è solo questione di transistor e silicio, ma di una strategia sistemica capace di far dialogare matematica, ingegneria e politica industriale.
In un certo senso, Huawei ci ricorda che la rivoluzione tecnologica non si fa solo con i miracoli hardware, ma anche con la matematica, un po’ di astuzia e tanta volontà politica. Come disse un certo esperto: “La tecnologia non è mai una questione solo di scienza, ma sempre di potere e strategia.” Ren, forse, sta scrivendo proprio questo nuovo capitolo.