Se Shrek, Darth Vader e Buzz Lightyear potessero parlare, probabilmente oggi avrebbero già consultato un avvocato. E non per discutere di nuovi contratti o reboot, ma per affrontare la loro resurrezione involontaria nel circo dell’intelligenza artificiale generativa. Il 2025 non ha ancora portato veicoli volanti, ma ha spalancato le porte a una battaglia epocale: Disney e Universal hanno trascinato in tribunale Midjourney, accusandola di essere una “macchina distributrice virtuale di copie non autorizzate”. Un’accusa pesante, che ha tutta l’aria di voler diventare il precedente giudiziario che Hollywood aspettava come un sequel troppo a lungo rimandato.
Perché qui non si tratta solo di immagini. Si tratta di potere. E di copyright. E, manco a dirlo, di soldi. Tanti.
Midjourney, uno dei principali attori nella corsa all’IA visuale, è finita sotto i riflettori con un’accusa che sembra uscita da un manuale scolastico di diritto d’autore: riproduzione sistematica di contenuti protetti, senza alcuna licenza, senza alcun pagamento, senza alcun ritegno. E nel dossier depositato mercoledì in una corte federale californiana, Disney e Universal elencano non vaghi sospetti, ma esempi precisi: da Yoda a Deadpool, da Elsa a Iron Man, passando per Spider-Man, WALL-E e i Minions. Tutti facilmente generabili, a detta dei querelanti, con un semplice prompt inserito in Midjourney. Il risultato? Migliaia di immagini, perfettamente riconoscibili, usate non solo dagli utenti ma anche per promuovere lo stesso servizio.
La narrazione dei due colossi dell’intrattenimento è chirurgica: non siamo di fronte a una svista tecnologica, ma a una forma raffinata di appropriazione indebita. L’equivalente digitale di un artista di strada che disegna Topolino su una maglietta e poi la vende davanti a Disneyland — solo che stavolta lo fa con la potenza moltiplicativa dell’algoritmo.
Disney e Universal parlano di “free-riding”, di parassitismo digitale. Un’accusa tagliente che suona come una chiamata alle armi rivolta all’intera industria dei contenuti. E in effetti, dietro questa causa si cela molto più che una questione di proprietà intellettuale: è una prova generale di guerra fredda tra creatività umana e produzione automatizzata. Tra Hollywood e Silicon Valley. E la tensione è destinata a salire ancora: nel mirino c’è già la prossima frontiera, quella dei video. Midjourney — sostengono i querelanti — sta infatti per lanciare un generatore video, potenzialmente capace di animare le stesse icone pop violate staticamente. E secondo Disney, la violazione è già in corso: se il modello sta imparando anche dai frame protetti, allora è già colpevole in fase di addestramento.
Un tecnicismo? Non proprio. È la chiave di volta della contesa legale: se addestrare un modello con contenuti protetti è già una forma di plagio, allora ogni modello generativo diventa potenzialmente un ladro seriale. Ed è proprio qui che il caso Midjourney rischia di creare un’onda d’urto giudiziaria molto più ampia, capace di travolgere tutti: OpenAI, Anthropic, Stability, Runway, persino YouTube se un giorno decidesse di implementare una generazione video automatica su larga scala. La citazione del caso The New York Times vs. OpenAI, non a caso, fa capolino nel testo della denuncia: la frontiera si sta spostando, e ora tocca all’immagine.
A chi sperava in una tregua tra IA e creativi umani, questo atto legale suona come un fischio d’inizio. Il vero nodo — che nessuno, al momento, ha sciolto — è: quando un’immagine generata da una IA diventa una copia illegale? Basta la somiglianza stilistica? Serve una identità visuale oggettiva? E se l’utente chiede “un robot nello stile di WALL-E”, ma senza citarlo esplicitamente, chi è il colpevole? L’utente, il prompt, il dataset o l’algoritmo?
La risposta della legge, oggi, è impantanata nel secolo scorso. Le norme sul copyright sono state pensate per proteggere il libro, il disco, il film. Non il prompt.
Ma le aziende, quelle con le orecchie a punta e le mascotte animate, non possono più aspettare che il diritto si aggiorni. Disney, forte della sua storia e del suo portafoglio IP tra i più redditizi al mondo, sembra intenzionata a creare un precedente che stabilisca un principio: l’immaginario ha un padrone, e quel padrone vuole essere pagato. Anche se l’immaginario lo rigenera un’intelligenza artificiale.
L’ironia? Lo stesso Walt Disney, che costruì il suo impero rielaborando fiabe popolari di pubblico dominio, oggi si erge a paladino della sacralità del copyright. Come dire: “Fai ciò che dico, non ciò che ho fatto”. Ma in un’epoca in cui un adolescente può generare un trailer di Frozen 3 con tre prompt e un’app gratuita, la differenza tra creatore e imitatore si assottiglia fino a scomparire.
E Midjourney, con il suo silenzio tattico, sembra voler giocare la carta dell’ambiguità. Non commenta, non promette filtri, non si piega. Il suo “Explore page” — la vetrina online dove scorrono le creazioni più suggestive — è, per i legali di Disney, la pistola fumante: una sfilata di icone pop rianimate, remixate, addirittura migliorate. Come se l’algoritmo fosse diventato regista, costumista e concept artist insieme, ma senza passare dal via e senza pagare il biglietto.
La questione non è solo legale. È simbolica, filosofica, esistenziale. Cosa significa “creare”, in un’epoca in cui l’immaginazione può essere sintetizzata? E dove si ferma la cultura condivisa e comincia la proprietà intellettuale?
Per ora, tutto passa in mano a una giuria popolare. L’ultima ironia: saranno dodici cittadini qualunque, magari cresciuti proprio con i VHS Disney, a decidere se l’algoritmo è un artista o un ladro. Un verdetto che potrebbe riscrivere il rapporto tra AI e copyright, e forse anche tra Silicon Valley e Hollywood.
Come diceva un certo topo con i guanti bianchi: “It all started with a mouse”. Solo che stavolta, quel mouse è finito in tribunale.