C’è qualcosa di profondamente ironico — e incredibilmente strategico — nel vedere Taboola, il re degli articoli “Ti potrebbe interessare anche…” in fondo a ogni sito web, diventare improvvisamente il paladino dei contenuti editoriali saccheggiati dall’AI.
Mercoledì, in una mossa che suona tanto come un attacco preventivo quanto un atto di autodifesa, Taboola (NASDAQ:TBLA) ha annunciato il lancio di DeeperDive, un motore di ricerca basato su intelligenza artificiale generativa. Ma attenzione: non si tratta dell’ennesimo clone di ChatGPT travestito da “assistente smart”. DeeperDive ha un compito preciso, chirurgico, politicamente strategico: riportare i publisher al centro della mappa del potere digitale.
Nel comunicato stampa, la compagnia ha messo il coltello nella piaga: “Oggi gli editori affrontano minacce crescenti da motori di ricerca potenziati da AI generativa che raschiano i loro contenuti senza autorizzazione, riducono il traffico e non offrono compensi”. Tradotto: Google, OpenAI, Perplexity e compagnia bella stanno costruendo i loro imperi sui contenuti altrui. E gli editori? Rimangono con il conto in mano, e una pagina bianca da monetizzare.
Taboola, fino a ieri considerata una sorta di pubblicità nativa con sindrome da clickbait, oggi si reinventa come cavaliere dei diritti digitali. Il messaggio è chiaro: se l’AI vuole contenuti, deve pagarli.
Il paradosso è che Taboola stessa, nel passato, non ha mai goduto di una reputazione immacolata tra i puristi dell’informazione. Il suo modello, basato su widget di raccomandazione che inseriscono pubblicità camuffata in siti editoriali, è stato a lungo accusato di inquinare la user experience. Ma ora la narrativa si ribalta. In un ecosistema dove l’AI divora tutto ciò che incontra senza citare la fonte, il sistema Taboola — per quanto rozzo — appare quasi cavalleresco.
DeeperDive, però, non è solo un manifesto ideologico. È anche un’arma tecnica. Si propone di agire dentro i siti web degli editori, fungendo da sistema di ricerca potenziato per trattenere gli utenti nell’ambiente nativo, evitando che scappino verso Google o chatbot generativi. L’esperienza è ottimizzata, dice Taboola, per “search journeys” di tipo verticale: salute, viaggi, finanza, tecnologia. Aree ad alto CPM, tanto per essere chiari. Il motore risponde come un’AI, ma pesca solo da contenuti autorizzati, firmati e monetizzabili.
Una mossa brillante? Forse. Una mossa disperata? Anche. Ma senza dubbio una mossa lucida, che intercetta il vero conflitto degli anni Venti: la proprietà intellettuale nell’era dell’AI.
In fondo, dietro le quinte, si sta combattendo una guerra fredda per il controllo del tempo utente. Se i chatbot come ChatGPT e Perplexity riescono a rispondere a tutto — anche troppo bene — gli utenti smettono di visitare i siti che ospitano pubblicità. Meno traffico, meno entrate, meno giornalisti, meno contenuti. E il ciclo si autoalimenta. I modelli linguistici continuano a raschiare, ma la fonte si prosciuga. È l’equivalente informativo della desertificazione climatica.
Taboola non è l’unica a vedere questa crepa strutturale. Ma è tra le poche ad aver capito che la soluzione non è il ricorso legale, bensì la controingegneria dell’ecosistema. Vuoi usare i nostri contenuti? Fallo dentro i nostri confini. Sotto le nostre regole. Con il nostro branding.
Curiosità: il nome “DeeperDive” suona come una frecciatina a Google. Per anni, Big G ha offerto ai publisher un’esposizione superficiale, frammentata, indicizzata secondo criteri opachi e sempre più verticalizzati sulla monetizzazione pubblicitaria via Google stessa. “Deep” è ciò che il SEO non è mai stato. “Dive” è ciò che un lettore non fa più, abituato a rimanere in superficie.
C’è qualcosa di profondamente strategico nel fatto che DeeperDive venga offerto gratuitamente agli editori partner. È il classico approccio del cavallo di Troia: entrare negli ambienti editoriali non come vendor, ma come salvatore. Introdurre un motore AI generativo controllato, tracciabile, pienamente integrato. Il prezzo, lo sappiamo, non è mai gratuito. Ma in un’epoca in cui gli editori si sentono accerchiati da intelligenze artificiali rapaci, qualsiasi soluzione che promette di riportare l’utente “in casa” è benvenuta.
Sul lato finanziario, la mossa è anche una scommessa contro il destino apparentemente segnato di molte ad-tech company. Taboola, quotata dal 2021, ha sofferto come tutti i suoi cugini di settore per l’effetto cookie apocalypse e per il crescente dominio dei walled gardens di Google e Meta. Con DeeperDive, la società non solo aggiunge un nuovo layer di valore al proprio stack, ma crea anche una leva per negoziare da una posizione di forza con gli editori, oggi alla ricerca disperata di nuove fonti di traffico e revenue.
Certo, restano dubbi. DeeperDive sarà abbastanza potente da competere, anche solo in nicchie verticali, con i colossi dell’AI? Gli utenti lo adotteranno o continueranno a chiedere tutto a ChatGPT? Gli editori accetteranno di integrare una tecnologia Taboola che, pur mascherata da salvatore, è sempre un inserzionista travestito?
Ma in un mercato dove tutti fingono che l’AI sia gratuita, e che i contenuti crescano sugli alberi, la verità è una sola: chi controlla il contenuto, controlla la mente. E Taboola, con DeeperDive, ha appena lanciato il suo uncino.
“Se non puoi batterli, crea il tuo ecosistema” potrebbe essere il vero sottotitolo di questa storia. E tra un consiglio di salute generato da AI e una vera inchiesta giornalistica che ha richiesto ore-uomo, c’è ancora una differenza. Piccola, ma cruciale. DeeperDive cerca proprio quella crepa. E ci si infila.