Se l’hai vista, non te la dimentichi più. Un alieno che beve birra. Un vecchio con un chihuahua e un cappello da cowboy. Un tizio che nuota in una piscina piena di uova. E no, non è il trailer di un film trash anni ’90 o un esperimento dadaista di Spike Jonze: è una pubblicità mandata in onda durante le NBA Finals. Il budget? Due spiccioli: 2.000 dollari. Il regista? Un tizio solo con un laptop e Google Veo 3. Benvenuti nell’era del slopvertising, la pubblicità generativa AI che mescola delirio e strategia come uno shaker senza coperchio.

L’azienda dietro a questa pièce di teatro digitale è Kalshi, una piattaforma di scommesse regolamentata dalla CFTC (sì, è tutto legale), che ha deciso di usare l’assurdo per diventare virale. L’intuizione è stata chiara quanto cinica: se l’attenzione è la nuova valuta, il nonsense totale è il nuovo dollaro forte. Ecco quindi che una campagna pubblicitaria che in altri tempi avrebbe richiesto uno studio creativo, un team di post-produzione e magari uno spot da milioni, oggi si realizza con una manciata di prompt e qualche clic su CapCut.

La mente dietro il progetto è PJ Accetturo, autodefinitosi “AI filmmaker”, figura emblematica della post-realtà in cui stiamo scivolando. Il suo metodo? Scrive uno script, chiede a Gemini di generare una lista di scene in stile prompt engineering e le fa sputare fuori da Veo 3, il nuovo generatore video text-to-video di Google. Su 300-400 generazioni, una quindicina sono risultate utilizzabili. “Un uomo solo, 2-3 giorni di lavoro”, ha dichiarato. Il risultato: uno spot mandato in onda in prima serata nazionale durante uno degli eventi sportivi più seguiti dell’anno. Da un punto di vista finanziario, è un massacro: una riduzione del 95% dei costi rispetto alla pubblicità tradizionale. Se non stai sudando freddo, non hai capito cosa sta succedendo.

Kalshi non sta solo promuovendo la sua piattaforma, ma sta iniettando un nuovo stile narrativo nel sistema nervoso della pubblicità televisiva. Un linguaggio fatto di glitch, surrealismo randomico, e volti generati che sembrano usciti da un sogno febbrile. E, soprattutto, sta dimostrando che l’intelligenza artificiale generativa non è più un esperimento da laboratorio: è una macchina da guerra economica e culturale.

Quello che molti pubblicitari faticano ad ammettere è che la qualità non è più l’unità di misura dell’efficacia. L’attenzione lo è. E se per catturarla bisogna far vedere un alieno ubriaco mentre scommette sul prezzo delle uova, ben venga. Soprattutto se il tuo target è composto da utenti scrollanti, annoiati e perfettamente disposti a fermarsi davanti all’assurdo, fosse anche solo per qualche secondo.

L’altra parte della medaglia è ben più oscura. Il “slop” – termine ormai canonico per descrivere contenuti generati male, a caso, senza contesto – si sta infiltrando nelle nostre vite non come rumore, ma come stile. Quello che prima sarebbe stato classificato come errore oggi è linguaggio post-contemporaneo. Non è più “brutto”, è memetico. Non è più nonsense, è engaging. Lo spot di Kalshi è stato pensato così: per sembrare un errore dell’algoritmo, ma con un messaggio perfettamente calibrato per insinuarsi nella mente.

Una curiosità per capire il futuro: Google Veo 3 è stato rilasciato da appena qualche settimana, ma il suo potenziale è già in fase di weaponizzazione da parte di agenzie, brand e individui singoli che capiscono come cavalcare il flusso anziché resistervi. Non è solo una questione di costi ridotti. È il trionfo della generatività pervasiva, dove la creatività non è più un dono umano, ma un processo iterativo di prompt e selezione. È darwinismo creativo in salsa siliconiana.

Cosa succede quando ogni marchio può permettersi centinaia di versioni della stessa campagna, testate in tempo reale, generate on-demand, con l’assistenza di AI sempre più sofisticate? Succede che l’intera industria pubblicitaria diventa un campo minato per i vecchi attori. Madison Avenue, la mitica arteria dell’advertising americano, si sta trasformando in un viale fantasma, dove le grandi agenzie restano sedute a lucidare le loro statuette mentre i filmmaker AI si portano a casa gli slot pubblicitari in prima serata.

Mark Zuckerberg lo ha detto chiaramente: l’obiettivo di Meta è permettere a ogni azienda, anche minuscola, di generare pubblicità complete in pochi minuti, con l’AI. Amazon non è da meno. Netflix ci lavora. Google guida il carro con Veo 3. Non è più un trend. È un reset sistemico. E chi si ostina a credere che “la creatività umana non potrà mai essere sostituita” è lo stesso che nel 1995 diceva che “Internet è una moda passeggera”.

Il caso Kalshi è solo l’inizio. Ma è un inizio dirompente. Ha dimostrato che una pubblicità può essere assurda, brutta e nonsense, ma se è virale, ha vinto. E soprattutto ha dimostrato che il vantaggio competitivo oggi è nella comprensione profonda di come funziona il ciclo dell’attenzione digitale, non nella bellezza formale o nella qualità tecnica. In questo senso, PJ Accetturo ha fatto qualcosa di clamoroso: ha usato lo strumento giusto, al momento giusto, nel modo sbagliato giusto.

L’advertising non è morto. Si è solo evoluto in qualcosa di disturbante, liquido e profondamente algoritmico. L’unica cosa che possiamo dire con certezza è che il prossimo spot che ti farà ridere, indignare o semplicemente esclamare “ma che diavolo è questo?” sarà probabilmente generato da un modello linguistico addestrato su miliardi di immagini e testi, ottimizzato per il click-through rate e programmato per fregarsene altamente del tuo senso estetico.

E forse è proprio questo il punto.

Tech che creano automazione AI minacciano le agenzie pubblicitarie: la rivoluzione silenziosa

Il futuro della pubblicità non è più nelle mani di registi, troupe o sceneggiatori. È un software, uno strumento sempre più sofisticato, che prende vita tra linee di codice e modelli predittivi. Negli ultimi mesi, abbiamo visto Google svelare Veo, una nuova versione del suo tool di generazione video che permette di creare brevi spot semplicemente digitando un testo. Non serve più un set, non serve una troupe: basta un prompt. E se questo non è un cambio di paradigma, ditemi voi cosa lo è.

Mark Zuckerberg, dal palco della sua assemblea annuale, ha lanciato una visione tanto audace quanto inquietante: “In un futuro non troppo lontano, vogliamo arrivare a un mondo in cui qualsiasi azienda possa semplicemente dirci qual è il suo obiettivo, quanto è disposta a pagare per ogni risultato, collegare il proprio conto bancario e lasciare che sia l’AI a fare tutto il resto.” Parole che suonano come un manifesto di potere concentrato, un “redefinire la categoria della pubblicità” che sposta l’intera industria verso un modello dove le campagne non nascono più da un’idea, ma da una serie di obiettivi, budget e un algoritmo che decide cosa mostrare e come.

Per le piccole e medie imprese, questo può sembrare il Santo Graal: creare annunci fotografici e video senza investire in costose produzioni, affidandosi a un’AI che promette di portare il marketing a portata di tutte le tasche. Tuttavia, non tutto è rose e fiori. Le grandi aziende, da sempre gelose del loro brand e della qualità percepita, guardano con sospetto questa delega all’intelligenza artificiale. Temevano che i contenuti generati dall’AI potessero non avere lo stesso “look and feel” di quelli fatti a mano da professionisti, rischiando di diluire l’identità e il valore del marchio.

E non è un problema da poco: l’industria stessa ammette che molte immagini e video generati automaticamente sono ancora distorti o semplicemente inutilizzabili. La magia dell’AI richiede un consumo enorme di risorse computazionali e la creazione di modelli specifici per ogni brand, un processo tutt’altro che immediato o economico. La tecnologia, per quanto affascinante, è ancora in una fase in cui la perfezione richiede tempo, interventi umani e investimenti in tecnologia.

Nel frattempo, aziende emergenti nel panorama AI si contendono il mercato, offrendo soluzioni sempre più integrate e user-friendly. Strumenti come Midjourney e DALL-E sono già ampiamente utilizzati per creare contenuti pubblicitari da molte aziende, che li usano per alimentare campagne su tutte le piattaforme digitali, inclusa quella di Meta. Zuckerberg ha dichiarato che Meta sta valutando come integrare queste tecnologie di terze parti nella sua offerta, un chiaro segnale di quanto la battaglia per il controllo del marketing automatico stia diventando globale e senza esclusione di colpi.

La prospettiva di un mondo dove l’intera catena del valore pubblicitario sia gestita da AI non è più fantascienza, ma una realtà che avanza silenziosa, ma inarrestabile. Per le agenzie tradizionali, è una chiamata a reinventarsi con urgenza: chi non si adatterà sarà travolto da questa ondata di automazione intelligente, incapace di competere con algoritmi che non dormono mai, non chiedono pause e conoscono il ROI meglio di qualunque esperto umano.

E allora, mentre il vecchio paradigma vacilla, l’unica certezza è che la pubblicità sta entrando in una nuova era. Un’era in cui il talento umano dovrà convivere e competere con la precisione di un software che sa, in tempo reale, cosa vogliono davvero i consumatori. Un’era dove il marketing si fa scienza esatta e l’arte della narrazione rischia di diventare un prodotto standardizzato, messo in piedi da una macchina che non ride, non piange e non ha bisogno di creatività. O forse, proprio per questo, la vera creatività sarà quella di chi saprà manovrare questi nuovi strumenti senza farsene schiacciare.

Ironico, no? Gli algoritmi stanno per riscrivere il modo in cui ci vendiamo al mondo, e se le agenzie pubblicitarie vogliono sopravvivere, dovranno smettere di pensare a se stesse come agli unici creativi in gioco.