Immaginate un futuro dove Chiara Ferragni non ha bisogno di truccarsi, fare luce perfetta o mettere in pausa una vacanza a Mykonos per sponsorizzare uno shampoo: una sua controfigura digitale, indistinguibile dall’originale, lo fa al posto suo. Sempre sveglia, sempre disponibile, sempre perfetta. Ora smettete di immaginare. Quel futuro è già un prodotto freemium in beta.

TikTok ha annunciato oggi l’espansione della sua piattaforma pubblicitaria basata su intelligenza artificiale, Symphony. Nome appropriato, perché sembra più Wagner che Vivaldi: una sinfonia di automazione che promette di riscrivere non solo il business degli influencer, ma l’intero concetto di raccomandazione umana. L’idea è tanto semplice quanto inquietante: sostituire corpi, voci e volti reali con avatar sintetici in grado di “provare” abiti, “mostrare” app su smartphone e “consigliare” prodotti come se fossero vere persone. Il tutto generato con una foto, un prompt testuale e qualche secondo di attesa. Voilà, l’influencer è servito.

Questa evoluzione ha implicazioni profonde non solo per la pubblicità, ma per l’economia dell’attenzione. Il contenuto sponsorizzato, ormai, è ovunque: si confonde tra uno sketch ironico e un tutorial di trucco, fa il nesting nei reels, nei live, nei commenti. Ma con l’arrivo degli influencer sintetici, non si tratta più di “fare content”, bensì di generarlo industrialmente, come le caramelle gommose. L’algoritmo non chiede pause sindacali.

Da tempo, l’automazione avanza nel marketing come una corrente carsica. Già oggi molte aziende utilizzano personaggi CGI per campagne pubblicitarie. Ma TikTok alza la posta, democratizzando questo tipo di contenuto con un’interfaccia amichevole e una promessa implicita: puoi sostituire i tuoi testimonial umani con cloni digitali, senza dover trattare cachet, umori o NDA. L’influencer perfetto non esiste? TikTok lo genera per te.

E qui il nodo non è solo tecnologico. È filosofico. Se un avatar AI mostra un vestito e dice “adoro come mi sta”, stiamo ancora parlando di influencer marketing o siamo già nell’ambito della performance pubblicitaria simulata? La fiducia, moneta simbolica che reggeva la relazione tra creator e pubblico, si dissolve come pixel in un filtro bellezza. Come ci si fida di qualcuno che non esiste?

Il vantaggio per i brand è evidente. Niente più complicate trattative contrattuali con influencer agentizzati, nessun rischio di scandali pubblici o tweet disastrosi, zero tempi morti. L’AI lavora H24, in tutte le lingue, per tutti i mercati. Vuoi localizzare una campagna per il mercato giapponese? Non serve più chiamare un creator locale. Basta selezionare la lingua: doppiaggio AI e via.

Certo, TikTok assicura che tutti i contenuti generati saranno etichettati come tali, con “più livelli di revisione per la sicurezza”. Ma chi crede davvero che l’utente medio, nel suo scroll compulsivo tra balletti e skincare routine, si fermerà a leggere l’etichetta di un video ben fatto e fluido? Le linee tra realtà e simulazione non si sfumano: vengono intenzionalmente offuscate.

E i veri influencer? La nuova carne è sintetica, e loro lo sanno. Alcuni si stanno adattando, usando strumenti di AI per fare editing, pianificare post o negoziare collaborazioni. Ma il rischio è più subdolo. Non è solo che i brand potrebbero scegliere un clone invece di te: è che i cloni potrebbero far scendere il valore percepito del tuo lavoro. Se un avatar costa un decimo, pubblica cento volte tanto e non si lamenta, chi vuole ancora pagare una persona?

In questo scenario, il ruolo dell’influencer umano rischia di trasformarsi da protagonista a controfigura di se stesso. Se oggi un creator è valutato per la sua autenticità, la sua “relatability”, domani potrebbe diventare un benchmark per l’AI: qualcosa da emulare, replicare, superare. Il mercato non ama gli umani quando può ottenere l’equivalente sintetico a basso costo. Non è cattiveria. È efficienza.

C’è poi una questione di saturazione. L’invasione di contenuti generati potrebbe rendere ancora più caotico il feed, già oggi congestionato. E l’utente? Finirà per diventare immune, assuefatto, come chi ascolta mille spot radiofonici e non ne ricorda nemmeno uno. O peggio: potrebbe sviluppare una preferenza per i contenuti artificiali, più levigati, più coerenti, più ottimizzati. L’influencer umano potrebbe risultare… troppo umano. Con tutte le sue imperfezioni.

Nel frattempo, le piattaforme guadagnano comunque. Che tu sia un avatar o un creator vero, se porti click e conversioni, sei utile. Ma il vero dividendo dell’AI non è per chi crea contenuti. È per chi li ospita, li monetizza, li controlla. Per TikTok, perché dividere gli introiti di TikTok Shop tra mille creator quando puoi tenere tutto in casa, con un paio di avatar e un LLM che fa da copywriter?

Ironia della sorte: l’era dell’influencer, nata per “umanizzare” i brand, si conclude nel suo contrario. I brand non hanno più bisogno di umanità. Hanno bisogno di performance. E l’umano, con le sue pause pranzo e i suoi sbalzi d’umore, è solo una variabile difficile da controllare.

Ma ecco l’ultima beffa: i consumatori continueranno a “credere” negli influencer. Anche quando saranno fatti di pixel. Perché ciò che conta non è che l’influencer esista. È che sembri vero. E nell’era post-reale, il sembrare batte l’essere. Platone scrolla forte, ma l’algoritmo sorride.