C’è una regola non scritta nella Silicon Valley: ogni promessa di intelligenza artificiale si paga con una clausola, un incremento tariffario e una leggera dose di ipocrisia. Salesforce, il gigante della customer relationship management, lo sa bene. Dopo aver cambiato le carte in tavola sull’utilizzo dei dati generati da Slack — vietando di usarli per addestrare modelli AI, ma curiosamente solo ai clienti, non a sé stessa — e aver inasprito le condizioni per i vendor terzi, ora passa alla cassa. Con un aumento dei prezzi che sembra un “ritocco” da 6% sulle edizioni Enterprise e Unlimited, ma che sulle edizioni di Slack diventa una sforbiciata del 20%. Quasi elegante, se non fosse che la parola “aumento” si accompagna sempre più spesso alla parola “intelligenza artificiale”.
Si tratta, beninteso, di un balletto ormai codificato nell’industria SaaS: si introducono funzioni AI “straordinarie”, si promette un boost di produttività e insight quasi divini, e intanto si aggiunge un paio di dollari a utente qui, un margine di controllo sui dati lì. Ma la realtà è che questi aumenti non sorprendono nessuno, e forse è proprio questo l’aspetto più allarmante. Perché stiamo ormai metabolizzando il fatto che innovare voglia dire pagare di più, e soprattutto cedere un po’ di controllo in cambio di suggestioni algoritmiche.
Slack Business+ passerà da 12,50 a 15 dollari al mese per utente, in nome della “ricerca aziendale potenziata” e della “traduzione di testo” — funzioni che, parliamoci chiaro, un plugin open source di media qualità gestisce da anni. Ma qui non si vende tecnologia, si vende il contesto: l’integrazione, la compliance, la scatola chiusa e certificata che ti fa dormire sonni tranquilli nel consiglio di amministrazione. E per questo Salesforce lo sa: può permettersi di aumentare senza perdere troppo sangue. Ha in pugno i grandi clienti, quelli che sanno bene che il lock-in è profondo, che le personalizzazioni sono stratificate come un millefoglie legacy, e che uscire da Salesforce o Slack non è un progetto IT: è un esodo biblico.
Il parallelo con Microsoft e Google è immediato. Anche loro hanno aumentato i prezzi delle suite collaborative e cloud-based, sempre invocando l’intelligenza artificiale come scusa nobile. Il fatto è che non stanno vendendo AI: stanno vendendo un’assistente onnisciente, una produttività aumentata, di un supporto clienti che magicamente sa cosa rispondere prima ancora che il cliente abbia finito la domanda. Il problema? Queste promesse si infrangono contro le policy. Quelle stesse policy che — come nel caso Slack — dicono “no, non puoi usare i dati per addestrare modelli AI”. A meno che tu non sia Salesforce. Allora puoi. E come.
Ciò che stiamo vivendo è una sorta di capitalizzazione delle API cognitive: aziende come Salesforce monetizzano due volte. Prima vendono il software, poi vendono l’accesso regolamentato a intelligenze artificiali che trattano i tuoi dati come una risorsa da proteggere… o da sfruttare, a seconda di chi sei. È una dinamica asimmetrica. I vendor SaaS si fanno guardiani dell’intelligenza artificiale, mentre ai clienti viene offerta una versione depotenziata, sterilizzata, pseudo-automatica, dove ogni prompt è tracciato, ogni insight filtrato.
Nel caso di Salesforce, l’aumento di prezzo è apparentemente razionale: sono passati due anni dall’ultimo ritocco per i suoi prodotti principali e tre per Slack. Ma nel frattempo lo scenario è cambiato radicalmente. Siamo in piena corsa alla gen-AI, dove ogni executive deve poter raccontare che la sua azienda “sta usando AI generativa” per ottenere un vantaggio competitivo. Ma come sempre, chi controlla le piattaforme decide anche cosa si può definire “vantaggio”. La traduzione simultanea nei canali Slack? È interessante, certo. Ma non è una rivoluzione. È una monetizzazione dell’ovvio.
Questa strategia ha un sapore vagamente distopico: Salesforce si riserva il diritto di decidere come i tuoi dati possono o non possono essere usati, ma contemporaneamente ti offre nuovi strumenti che — guarda caso — elaborano proprio quei dati. E con un contratto che vieta a terze parti di fare lo stesso. È come affittarti un giardino e poi dirti che solo il padrone di casa può piantarci fiori.
C’è anche un curioso paradosso. Nella narrativa dominante dell’AI, i dati sono il nuovo petrolio. Ma se i clienti non possono usare i propri dati per addestrare modelli, e i vendor possono farlo a piacimento, allora chi possiede davvero il petrolio? La risposta è semplice: chi costruisce le pipeline. E Salesforce è una delle più sofisticate raffinerie del software enterprise.
Intanto, le aziende si trovano di fronte a una scelta implicita: pagare di più per rimanere nello stesso ecosistema oppure investire cifre esorbitanti per tentare una migrazione verso ambienti più aperti, magari self-hosted, magari open source. Ma quanti CIO hanno davvero l’autonomia politica — prima ancora che tecnica — per farlo?
La verità, cinica ma inequivocabile, è che Salesforce non sta semplicemente vendendo nuove funzioni: sta ridefinendo il concetto stesso di ownership del dato nel mondo SaaS. E lo fa con la calma di chi sa che i suoi clienti sono troppo integrati, troppo grandi, troppo “enterprise” per alzarsi dal tavolo.
Come direbbe un vecchio manager con lo sguardo di chi ne ha viste tante: “la libertà, nel cloud, è solo una feature premium”.
E a quanto pare, costa almeno il 6% in più. Ma l’AI non è gratis e vale sempre Business First.