L’affermazione è surreale, quasi comica nella sua pretenziosità distopica: “Elon Musk non usa il computer”. In un’aula di tribunale del 2025, questa è la linea difensiva scelta dai suoi avvocati, un plot twist che nemmeno Kafka avrebbe osato immaginare nel suo peggiore incubo cyberpunk. Eppure, è proprio così: mentre l’uomo che promette di terraformare Marte, creare taxi senza volante e colonizzare la mente umana con chip neurali viene accusato da OpenAI di non voler collaborare alla discovery process, i suoi legali rispondono con un secco “non usa il computer”. Tradotto: niente da consegnare, Your Honor.

A ben vedere, il punto non è la credibilità oggettiva della dichiarazione – chi davvero crede che il CEO di Tesla, SpaceX, xAI e mezza Silicon Valley viva come un monaco analogico nel 2025? – ma l’intelligenza dell’operazione retorica. È un esempio scolastico di gaslighting giuridico, uno stratagemma comunicativo che prende il proprio potere non dalla verità, ma dall’assurdità reiterata con autorità. Lo stesso Musk che tweeta (anzi, posta su X) compulsivamente, che ha trasformato la comunicazione in uno strumento di governance aziendale e manipolazione azionaria, ora diventa un entità quasi metafisica, inaccessibile alla forensica digitale perché… usa solo il telefono. Ma certo.

E qui si apre una crepa interessante, anche filosofica, nel rapporto tra tecnologia, potere e responsabilità. L’idea di un tech titan che abdica all’uso del computer mentre plasma l’infrastruttura dell’intelligenza artificiale globale è un cortocircuito perfetto. È come se Picasso avesse dichiarato di non usare i pennelli. O come se Alan Turing, sotto processo, avesse detto: “Non so nulla di macchine, sono più un tipo da cruciverba”.

Il contesto della causa è altrettanto grottesco. Musk accusa OpenAI di aver tradito la sua originaria missione non-profit per cedere alle lusinghe del capitalismo predatorio, diventando di fatto una macchina da guerra commerciale al servizio di Microsoft e di una manciata di venture capitalist mascherati da filantropi. È una battaglia tra narcisismi miliardari, dove la “missione etica dell’IA” è un concetto brandizzato, tirato fuori all’occorrenza come foglia di fico nei momenti opportuni. Musk stesso, fondatore e finanziatore iniziale di OpenAI, ha contribuito a definire il paradigma che oggi contesta in tribunale, come un alchimista che denuncia il golem per avergli seguito troppo bene gli ordini.

La mossa difensiva di dichiarare Musk “computer-free” ha un sottofondo quasi religioso. È l’ennesima mitizzazione del genio irraggiungibile, del CEO visionario che vive al di sopra dei normali processi cognitivi, come un oracolo che comunica attraverso smartphone e intuizioni cosmiche, non attraverso banali e-mail o fogli Excel. È anche un messaggio ai suoi fan: lui non è come noi, lui è oltre. In un mondo in cui ogni clic viene tracciato, ogni parola registrata, Musk si presenta come l’unico immune al log dell’algoritmo, il solo ancora libero nel panopticon digitale. È una performance identitaria tanto quanto una strategia processuale.

Ma se osserviamo la questione da una prospettiva più cinica – e realistica – la faccenda assume i contorni della classica manovra per ritardare, confondere e guadagnare tempo. Non c’è bisogno di prove cartacee quando puoi saturare il sistema legale con affermazioni talmente bizzarre da obbligare i giudici a fermarsi per domandarsi se siano ancora nel mondo reale o in una fan fiction scritta da ChatGPT. Intanto, il ciclo mediatico si compie, Musk rilancia meme su X, la causa si allunga e l’opinione pubblica si divide tra chi lo crede un genio incompreso e chi lo vede come un manipolatore seriale che gioca con la realtà come con i razzi SpaceX: ogni tanto esplodono, ma fanno sempre notizia.

Nel frattempo, la questione centrale – se OpenAI abbia tradito la sua vocazione originaria – rimane sullo sfondo, sepolta sotto un diluvio di narrativa tossica, autocompiacimento e giochi di prestigio legali. La verità, in questo caso, interessa a pochi. Conta di più chi riesce a dominare la narrativa. E in questo, Musk è maestro assoluto. Anche quando dichiara di non usare il computer, riesce a reindirizzare il focus dal merito al mito, dalla sostanza al personaggio.

Perché in fondo, nella Silicon Valley post-verità, la cosa più importante non è cosa fai, ma come riesci a raccontarlo. E in questo teatro surreale, l’uomo che non usa il computer ma costruisce intelligenze artificiali generaliste è il protagonista perfetto.