L’intelligenza artificiale, a quanto pare, ha deciso di avventurarsi là dove neanche Freud osò spingersi: dentro la mente di un gatto. O almeno nel suo apparato vocale. Baidu, il colosso cinese soprannominato con una certa fantasia “il Google d’Oriente”, ha depositato un brevetto per una tecnologia capace di tradurre i miagolii felini in linguaggio umano. L’obiettivo dichiarato: creare una comunicazione emozionale profonda tra animali e umani. L’obiettivo reale: chissà, ma di sicuro non è farsi dire “cibo” da un persiano ogni cinque minuti. (Scientific America)

Il brevetto, pubblicato a maggio, descrive un sistema che raccoglie suoni, comportamenti e parametri fisiologici (frequenza cardiaca compresa), per poi incrociarli con un modello di intelligenza artificiale in grado di dedurre lo stato emotivo dell’animale e tradurlo in una “lingua comprensibile”. Il tutto per “colmare il divario interspecie” e, perché no, vendere a ogni proprietario di animale una scatoletta di sogni digitali impacchettata in pixel.

Siamo davvero vicini a una “Google Translate per gatti”? O siamo, più probabilmente, all’ennesima illusione da startup camuffata da progresso? Come sempre, la risposta è: dipende da chi la chiede e da chi incassa.

L’idea di parlare con i propri animali domestici non è nuova. Dai cartoni Disney alle deliranti teorie new age sull’empatia telepatica, l’essere umano ha sempre desiderato dare un senso ai versi delle creature che lo circondano. Con l’AI generativa, però, il desiderio si è travestito da possibilità tecnica. Non più favolette, ma reti neurali. Non più maghi, ma data scientist. E soprattutto: non più sogni, ma brevetti.

Ma cosa c’è davvero dietro l’algoritmo del miao? In fondo, già oggi esistono app come MeowTalk, che promettono traduzioni in tempo reale dei vocalizzi felini con un margine di accuratezza dichiarato attorno al 90% anche se nessuno ha mai chiesto al gatto di confermare. A maggio, l’imprenditore Vlad Reznikov ha rilanciato con Feline Glossary Classification 2.3 (in allegato), una versione più ambiziosa che riconosce ben 40 tipi diversi di miagolio, con un’efficienza del 95%. Peccato manchi la revisione paritaria. O forse è proprio quello il trucco: nella scienza vera, si pubblica. Nel mercato, si lancia.

La proposta di Baidu, in ogni caso, mira più in alto. Non si limita alla fonetica: integra movimenti del corpo, temperatura, espressioni facciali, battito cardiaco. Una specie di ChatGPT for Cats, ma con sensori biometrici. Una macchina della verità per felini domestici, o una black box per umani troppo ansiosi. Perché, diciamolo chiaramente: chi ha bisogno di sapere se il gatto è triste? Se davvero fosse così turbato, smetterebbe di ignorarci?

Naturalmente, come in ogni fase di sviluppo AI che si rispetti, il progetto è ancora “in fase di ricerca”, come ha confermato Baidu a Reuters. Il che significa: il software non funziona (ancora), ma il comunicato stampa è pronto. Del resto, nel campo dell’intelligenza artificiale applicata, la velocità con cui si annunciano risultati spesso supera quella con cui si ottengono.

A complicare il quadro ci sono le obiezioni degli esperti che hanno definito l’idea di una “traduzione diretta” delle lingue animali come “una totale sciocchezza”. Non è una questione di capacità computazionale, dice, ma di logica semantica. Gli animali non parlano. Comunicano, sì ma attraverso segnali situazionali, pattern comportamentali, e una grammatica biologica che non prevede soggetto e predicato. Un cane può abbaiare in modo diverso se ha fame o se ha paura, ma non ti dirà mai “ieri ho riflettuto sul senso della ciotola vuota”.

Eppure, anche l’AI può svolgere un ruolo importante nella classificazione e nell’interpretazione di questi segnali. Se ben addestrata, può aiutare gli scienziati a riconoscere pattern e variazioni sottili. Ma non parliamo di dialogo. Parliamo di inferenze. E se vogliamo essere provocatori: parliamo di pattern recognition con un costume da Dr. Dolittle.

C’è, poi, il punto dolente che tutti fingono di ignorare: l’etica. Come raccogli questi dati? Come li etichetti senza proiettare antropocentrismo digitale in ogni bit? E soprattutto: chi decide che il “miagolio di protesta” equivale davvero a “sono frustrato dal tuo comportamento umano”? I problemi epistemologici che affliggono il naturalismo si stanno semplicemente spostando nel machine learning, con il vantaggio che ora possono essere venduti come feature.

Sotto il profilo SEO e sì, anche i gatti ora fanno parte del gioco delle keyword a questione è più che attuale. “AI animal translator“, “cat emotion AI“, “meow to speech” sono tutte chiavi di ricerca esplosive nella Google SGE economy. A forza di insistere con “parole chiave” e “intenzioni di ricerca”, siamo arrivati a un punto in cui persino il micio deve essere ottimizzato per il funnel. Se questo è il futuro della comunicazione interspecie, ci sarà da ridere. O da miagolare.

Resta il fatto che Baidu, nel suo pragmatismo cinese, potrebbe davvero essere più avanti di quanto sembri. Perché non si tratta solo di capire cosa dicono i gatti. Si tratta di posizionare un brand, costruire un dataset, e magari ottenere uno standard brevettabile che valga oro nell’era dell’AI ambientale. In fondo, cosa c’è di più irresistibile di un algoritmo che ti dice cosa pensa il tuo animale domestico? L’unica cosa migliore sarebbe un algoritmo che ti dice cosa pensano i tuoi figli — ma per quello serve un consenso legale più complesso.

In definitiva, i gatti continueranno a non parlare. Ma noi continueremo a fingere di ascoltarli, proiettando dentro i loro miagolii tutte le nostre nevrosi da bipedi iperconnessi. L’AI, come sempre, non inventa nulla: amplifica le ossessioni umane. E in questo caso, l’ossessione è semplice. Vogliamo sentirci amati. Anche da chi, notoriamente, ci tollera appena.

Foto in copertina: Jack