Dal 19 giugno al 30 luglio 2025, la Fondazione Pastificio Cerere di Roma ospita Timeline Shift, la mostra collettiva della quarta edizione del Re:humanism Art Prize.

C’è un dettaglio apparentemente secondario, quasi nascosto tra le righe, che racconta molto più di quanto sembri: nel cuore del quartiere romano dove dagli anni Settanta si sono insediati gli studi degli artisti, si è svolta l’ultima edizione di Re:Humanism. E non è un caso. Perché se è vero che l’intelligenza artificiale promette di rivoluzionare tutto, è proprio da quei luoghi — a metà tra lo studio, la bottega e il laboratorio concettuale — che emergono le risposte più potenti, o almeno le più scomode.

Daniela Cotimbo, storica dell’arte e curatrice, è una delle menti dietro questa iniziativa che dal 2018 mette in corto circuito due mondi apparentemente inconciliabili: l’arte e la tecnologia. Ma guai a considerarla una semplice giustapposizione di linguaggi. Re:Humanism non cerca la mediazione. Cerca il conflitto. Il corto circuito. La frizione generativa. Quella che, come ci racconta Daniela nell’intervista integrale che segue, è capace non solo di generare nuovi linguaggi artistici, ma anche di mettere in discussione l’intera grammatica del tempo digitale.

La genesi del progetto risale a un incontro con Alfredo Adamo, oggi CEO del gruppo Frontiere, realtà nata da una costola di Advantage, società attiva nell’ambito della consulenza e degli investimenti legati ai dati e alle startup. È qui che la riflessione prende forma, in un incrocio non scontato tra il pensiero critico e il capitalismo algoritmico. Una collisione tra cultura umanistica e visione imprenditoriale. Una dialettica che non si accontenta di osservare il fenomeno da lontano, ma lo attraversa, lo sporca, lo manipola.

Dalla prima edizione del premio nel 2018, la risposta è stata sorprendente: artistз, pubblico e critica hanno mostrato un interesse trasversale, che ha convinto il team a strutturare Re:Humanism come appuntamento biennale, accompagnato da un’associazione culturale che continua a produrre mostre, workshop, dibattiti e pubblicazioni anche negli anni “dispari”, quelli senza premio. In altre parole: non un evento, ma un ecosistema. Non un festival, ma un dispositivo curatoriale permanente.

Quest’anno, il tema scelto per l’open call è particolarmente spiazzante: il tempo. O meglio, la “timeline” quel flusso apparentemente lineare e inevitabile in cui l’intelligenza artificiale è stata progettata per funzionare. Un tempo deterministico, uniforme, funzionale alla predizione e all’ottimizzazione. Un tempo che, come ci ricorda Cotimbo, “non è l’unica realtà esplorabile”. Ed è qui che il progetto diventa politico. Perché rimettere in discussione il tempo algoritmico significa anche rimettere in discussione le narrative dominanti del progresso, della produttività, della crescita infinita.

La curatela ha dunque chiesto agli artisti selezionati tra oltre 500 candidature internazionali arrivate in poche settimane di esplorare nuove temporalità, nuovi modi di stare nel mondo che non siano semplici risposte alla logica del “next best action”. Il risultato? Dieci vincitori nella categoria principale, otto dei quali esposti nello spazio principale della Fondazione Pastificio Cerere, un luogo storico dell’arte contemporanea romana, carico di stratificazioni, incontri e sperimentazioni.

Non manca nemmeno il coinvolgimento del settore privato, ma in modo tutt’altro che decorativo. Uno degli spazi del cortile ospita un’opera vincitrice del premio speciale in collaborazione con APA, l’azienda romana di affissioni pubblicitarie, che ha messo a disposizione gli spazi digitali per un dialogo tra arte e città. Un esempio di come anche i media urbani, spesso ridotti a semplici supporti di comunicazione commerciale, possano essere ripensati come luoghi di intervento poetico e critico.

Re:Humanism, nella sua struttura stessa, si fa dunque atto di militanza curatoriale. Rifiuta il ruolo passivo dell’arte come “illustrazione tecnologica”. Non cerca di spiegare l’intelligenza artificiale attraverso estetiche accattivanti. Al contrario, pretende che siano gli artisti a ridefinire le domande. A smontare le logiche lineari del training set. A rompere la simmetria apparente dei modelli predittivi.

Cotimbo insiste su un concetto: l’intelligenza artificiale, oggi, è ancora costruita secondo paradigmi culturali estremamente localizzati. Geograficamente, economicamente, epistemologicamente. “È sempre una certa idea di futuro, di individuo, di linguaggio quella che viene codificata”, ci dice. E quindi l’arte, in quanto spazio di alterità, può e deve offrire un controcampo. Non per fornire alternative “migliori”, ma per generare attrito. Per mostrare che la storia non è ancora scritta. Che l’output non è inevitabile.

Parlare con Daniela Cotimbo significa accettare che le parole “innovazione” e “progresso” non sono sinonimi. Che dietro l’entusiasmo per l’intelligenza artificiale si nasconde spesso una semplificazione forzata della complessità umana. Che Re:Humanism non è un premio, ma una postura: un invito a sabotare le regole del gioco. A deviare la timeline. A immaginare un futuro in cui la macchina non sia un oracolo, ma un interlocutore. E in cui l’arte non sia la decorazione della tecnologia, ma la sua interruzione più feconda.

Quando l’algoritmo sogna tramonti e trecce nere: i finalisti di Re:Humanism riscrivono il rapporto tra arte, IA e potere

C’è qualcosa di profondamente scorretto — e quindi magnifico — nei progetti finalisti della quarta edizione di Re:Humanism. Scorretto perché nessuno di loro si limita a “usare l’intelligenza artificiale per fare arte”. Scorretto perché nessuno si presta docilmente all’ennesima estetica dell’innovazione. E magnifico perché ogni opera è, in fondo, una mina sotto le fondamenta stesse della neutralità tecnologica. I progetti premiati e selezionati quest’anno non “dialogano” con l’IA. La disturbano. La interrogano. Le mettono davanti uno specchio che non riflette codici binari, ma conflitti, memorie, corpi.

A partire da Lo-Def Film Factory, che si aggiudica il primo premio con l’artista Isabel Merchante. Ma la vera sfida si gioca nell’insieme, nella coralità di voci dissonanti che compongono la shortlist: Minne Atairu, Adam Cole & Gregor Petrikovič, Amanda E. Metzger, Daniel Shanken, Esther Hunziker, Federica Di Pietrantonio, IOCOSE, Kian Peng Ong e Franz Rosati. Nessun compiacimento visivo. Nessun gadget digitale. Solo domande: sulle traiettorie coloniali dell’estrazione tecnologica, sulle derive performative del capitale emotivo, sul potere algoritmico che si infiltra nelle pieghe del quotidiano.

Prendiamo Concept Drift di Franz Rosati, un’opera interattiva che si presenta sotto forma di videogioco, ma che di ludico ha poco. Il “drift”, nel gergo del machine learning, è quel momento in cui un modello perde aderenza alla realtà. Ma qui diventa metafora più ampia: quella del fallimento sistemico di un’intera epistemologia predittiva. Ambientata in un Sudafrica post-sfruttamento, l’opera ci costringe a navigare territori saturi di sorveglianza, espropriazione e memoria tossica, mostrandoci come ogni scelta tecnologica sia sempre anche una scelta geopolitica. Gli asset digitali dai modelli 3D generati da IA agli archivi audiovisivi si trasformano in prove di un’accumulazione algoritmica che attraversa corpi, paesaggi, economie.

Poi c’è One day I saw the sunset ten thousand times, che pare uscito da una poesia di un automa malinconico. Qui l’intelligenza artificiale non serve a ottimizzare nulla: osserva. Ripete. Si lascia attraversare da un raggio di luce che attraversa una finestra. E genera tramonti. Migliaia di tramonti. Ma tramonti che non esistono. O meglio: che esistono solo come cliché visivo addestrato da milioni di immagini online. L’opera è una macchina contemplativa che simula la nostalgia, il kitsch e il sublime in un loop senza risoluzione. La domanda non è tanto se l’IA possa “provare emozioni”, ma se noi possiamo ancora provare qualcosa di autentico davanti a un’emozione mediata da un algoritmo. Forse no. Forse sì. Forse è proprio quel dubbio che fa funzionare l’opera.

E poi c’è Da Braidr, il progetto di Minne Atairu, che mette l’IA a servizio della bellezza. Ma non quella universale, astratta, levigata dal bianco siliconato della Valley. Piuttosto: la bellezza nera, rituale, politica, artigianale. Quella delle trecce fatte nei saloni di Harlem, dove ogni intreccio è anche un atto di resistenza contro un sistema estetico che ha storicamente marginalizzato il corpo afrodiscendente. Il progetto immagina una startup speculativa (geniale già solo per questa definizione) che crea uno strumento di AI in grado di generare acconciature personalizzate, calcolare tempi e costi, ottimizzare il lavoro delle braiders. Ma lo fa con un’intenzione precisa: decostruire la retorica neoliberale del “tech will fix it” e restituire all’IA una funzione tattica, situata, di empowerment. Qui l’algoritmo non è demiurgo. È strumento. È parte di un’economia informale che non vuole essere formalizzata, ma riconosciuta.

Tutto questo avviene sotto il cappello di Re:Humanism, che ormai non è più solo un premio, ma un campo di battaglia curatoriale. Come ha ricordato la sua fondatrice e direttrice Daniela Cotimbo, l’IA continua a essere pensata dentro una sola “linea del tempo”: quella dello sviluppo lineare, della performance, dell’ottimizzazione. Ma il tempo, come ci insegnano questi artistз, può anche piegarsi, rallentare, collassare su se stesso. Ogni progetto finalista è, in fondo, un “timeline shift”: uno scarto, un errore volontario, un salto quantico che rompe la coreografia del progresso.

E se la macchina continua a produrre tramonti, forse è il momento di chiedersi non cosa ci mostra, ma cosa ci nasconde. Se l’algoritmo è addestrato sulla realtà, chi decide quale realtà conta? E quale viene esclusa? I finalisti di Re:Humanism 4 rispondono senza alzare la voce, ma incidendo nel codice: l’IA non è un soggetto neutro. È un archivio di potere. Ma anche, potenzialmente, uno strumento di riscrittura.

Il futuro, qui, non è solo un’esposizione. È una provocazione. E a differenza di tante altre biennali che sembrano sempre parlare a una platea immaginaria di investitori e venture capitalist, Re:Humanism ha ancora il coraggio di parlare agli artisti. Ma anche di far parlare le macchine. Non per sentire cosa dicono. Ma per capire da dove parlano. E per decidere, finalmente, se vogliamo continuare a rispondere.

Orari di apertura: dal martedì al sabato dalle ore 15.00 alle 19.00 e lunedì su appuntamento; Sede: Fondazione Pastificio Cerere, Via degli Ausoni 7 – Roma Info: Tel. +39 06 45422960 |  info@pastificiocerere.it | www.pastificiocerere.it

Rivista.AI ringrazia Chiara Grande di Seeweb per la connessione.