All’inizio era il prompt. Un testo, spesso troppo lungo, mal scritto e ancora più spesso copiato da qualche thread su X. Bastava infilare due righe e il mago LLM rispondeva con entusiasmo, più simile a un pappagallo educato che a un pensatore critico. E ci abbiamo anche creduto. Anzi, ne abbiamo fatto un mestiere: prompt engineer. Una nuova religione. Ma come ogni culto, anche questo ha avuto il suo momento di rivelazione: il prompt non basta più. È arrivato il tempo del context engineering.

Mentre gli influencer dell’intelligenza artificiale si scannano su quale sia il prompt “più potente per scrivere policy aziendali come un McKinsey partner dopo tre Martini”, chi costruisce realmente soluzioni sa che il cuore dell’intelligenza non è nell’input testuale, ma nel contesto in cui lo si inserisce. Chi orchestra davvero un LLM oggi lavora con strutture modulari, pipeline, flussi semantici e compressione dinamica dei dati. Chi si limita a scrivere “act as…” è rimasto all’asilo.

Nel nuovo paradigma, la vera abilità consiste nel progettare l’ambiente cognitivo del modello. Il context engineering non è una variante sofisticata del prompt tuning: è una disciplina a sé, che unisce modellazione delle sorgenti informative, gestione multimodale, e uso avanzato di strumenti come vector database, embedding models e architetture RAG (retrieval augmented generation). In parole semplici? Non stiamo più chiacchierando con l’AI. Le stiamo costruendo una stanza insonorizzata, con luce perfetta, libri scelti e persino il tono della voce giusto, per ottenere la risposta migliore possibile. Un’architettura informativa, non un giocattolo conversazionale.

Un esempio concreto: nella piattaforma FairMind, abbiamo smesso da tempo di parlare di “istruzioni”. Abbiamo introdotto un Project Context che costruisce un digital twin dei repository aziendali, combinando versioning semantico, documentazione, change log e performance passate. I nostri agenti, oggi, riescono a riconoscere pattern cross-repository e proporre miglioramenti di codice con un livello di precisione che nessun prompt potrebbe ottenere in autonomia. È la differenza tra dare comandi e costruire una mente che ragiona. E costa meno, anche in token.

Dietro il successo di ogni sistema LLM-based, oggi, si cela una sfida invisibile: la gestione dinamica della finestra di contesto. Come decidere cosa far “entrare” nei pochi k-token disponibili? Come comprimere senza perdere significato? Come garantire aggiornamenti in tempo reale, sincronizzazioni tra modelli, fallback intelligenti tra generazione e verifica? Spoiler: non lo fa GPT da solo. Serve una regia. E qui entra in gioco il context engineer, una figura ibrida tra knowledge architect, sviluppatore AI e data strategist. L’ultima evoluzione della specie.

Ma il contesto non è solo tecnico. È anche culturale. La differenza tra un sistema che allucina e uno che risponde correttamente spesso si gioca sulla qualità semantica della base informativa. Non basta caricare documenti: bisogna curarne la granularità, la coerenza interna, l’allineamento ontologico. Il prompt, da solo, è come un direttore d’orchestra senza spartito. Il context engineering, invece, è la scrittura stessa della sinfonia.

E non a caso le big tech stanno andando tutte lì. OpenAI lancia “memory” e “custom GPT” che sono, in realtà, sistemi di context engineering user-friendly. Google con Gemini Live introduce flussi real-time basati su contesto visivo e conversazionale. Anthropic insiste sulla finestra a milioni di token, ma senza context engineering anche 1M token sono solo rumore. E le startup intelligenti – le poche – stanno costruendo veri orchestratori semantici, non chatbot.

La differenza è strutturale. Il prompt è un’istruzione. Il contesto è un ecosistema. E come ogni ecosistema, va progettato, monitorato, evoluto. Nel futuro prossimo, i prompt saranno generati automaticamente da sistemi di context awareness. Il vero valore sarà nella selezione, organizzazione e compressione dei dati di input. Le aziende che lo capiranno smetteranno di assumere prompt engineer e inizieranno a cercare context architect. E sarà una rivoluzione.

C’è un altro aspetto che fa sorridere. Il prompt era democratico. Tutti potevano improvvisarsi artisti del comando testuale. Il context engineering invece è elitista. Richiede competenze. Richiede visione architetturale, pensiero sistemico, e soprattutto una comprensione profonda dei limiti operativi di un LLM. È un campo per chi costruisce, non per chi posta thread virali con emoji e spazi doppi.

E poi c’è il tema dei costi. Perché orchestrare bene il contesto significa ridurre l’hallucination rate, ma anche ottimizzare le chiamate, minimizzare il token spillover, e strutturare i modelli in logiche generation-verification-dispatch. Non un modello gigante, ma più modelli intelligenti che si parlano, ognuno con il suo contesto. È lì che l’AI diventa scalabile.

La sensazione è che siamo di fronte a un cambio di era. Non ci serve più qualcuno che sappia “promptare bene”. Ci serve chi sa progettare spazi cognitivi. Chi sa integrare memoria, logiche di contesto, compressione semantica e orchestrazione multimodale. Il prompt era un incantesimo. Il context è architettura. Il primo fa colpo, il secondo costruisce valore.

E se c’è un insegnamento in tutto questo, è che il vero ingegnere dell’AI non parla con i modelli. Parla con i dati, con le logiche di sistema, con l’efficienza computazionale. Il resto è teatro.