Bloomberg Nel 2005 ti vendeva il cloud come se fosse una pozione magica. Oggi ti vende l’intelligenza artificiale come se fosse una religione. Marc Benioff, il profeta hawaiano del SaaS convertitosi in missionario dell’automazione, ha dichiarato che il 30-50% del lavoro in Salesforce è già svolto dall’AI. Niente paura, dice, ci libererà per “lavori a più alto valore aggiunto”. Esattamente come ci hanno liberato i call center in outsourcing, le casse automatiche e l’email marketing.
In un’intervista con Emily Chang su Bloomberg, il CEO più memeabile della Silicon Valley ha messo nero su bianco quello che molti colleghi bisbigliano solo nei board meeting: l’AI non è qui per aiutare le persone a lavorare meglio. È qui per fare il loro lavoro. Meglio, più veloce, senza ferie, senza scioperi. Come ha detto con serafica convinzione: “Tutti dobbiamo abituarci all’idea che l’AI può fare cose che prima facevamo noi.” Il plurale maiestatis, ovviamente, esclude chi prende stock option.
Il caso Salesforce è emblematico. Dopo aver rivoluzionato il CRM con il cloud, Benioff adesso cerca disperatamente di restare rilevante in un’epoca in cui “vendere software” è roba da boomer. Ora il prodotto è l’agente AI: una creatura digitale che non solo gestisce il customer service, ma lo fa con un’accuratezza dichiarata del 93%, anche per clienti “piccolini” come Walt Disney. L’obiettivo? Eliminare la supervisione umana. Perché supervisionare, si sa, costa.
Il linguaggio è sempre lo stesso: empowerment, efficienza, innovazione. Ma dietro le parole scintillanti c’è una realtà più cruda: l’AI generativa sta diventando il nuovo middle management. E non ha bisogno di badge, pause caffè o sentimenti. Il messaggio è chiaro: se non puoi batterla, fatti da parte. O meglio, fanne un prodotto.
Secondo Benioff, l’uso massiccio dell’AI ha permesso a Salesforce di “assumere meno persone”. Una frase così candida da sembrare presa da un comunicato per investitori. E infatti è lì che queste dichiarazioni contano. Gli azionisti vogliono margini, non missioni umanitarie. Se GPT può generare codice, rispondere ai clienti e perfino scrivere report, perché pagare stipendi? La narrazione del “più tempo per attività a valore” è un diversivo retorico. In un mercato guidato dalla competizione algoritmica, il valore si misura in riduzione del costo per task, non in autorealizzazione.
La verità? Questa non è evoluzione, è disintermediazione della forza lavoro. Non è la nuova rivoluzione industriale, è un esperimento live di disoccupazione assistita da cloud. I grandi nomi – Microsoft, Google, ora anche Salesforce – stanno testando quanti knowledge worker possono tagliare senza che crolli l’impalcatura. Non è un caso che sempre più sviluppatori riportino che “l’AI scrive ormai il 30% del codice”. La vera notizia è che non si cerca neppure di nasconderlo più.
In questo contesto, il “valore aggiunto” promesso rischia di trasformarsi in un quiz esistenziale: cosa resta da fare all’umano quando il software si gestisce, si migliora e si vende da solo? È qui che il concetto di agente autonomo – l’ultima buzzword nella Silicon Valley – assume contorni sinistri. Perché l’agente non è solo un assistente. È un sostituto con ambizioni da manager.
Benioff, come sempre, gioca d’anticipo. Prima di tutti, ha capito che in un mercato dominato da intelligenze artificiali adattive, il posizionamento strategico passa per la narrativa. “Siamo i paladini dell’AI etica, dell’inclusione e della produttività.” Ma intanto la realtà è che, mentre sbandiera equità e sostenibilità, Salesforce sta implementando sistemi che riducono la necessità di capitale umano.
C’è una contraddizione irrisolta in tutto questo: la tecnologia che avrebbe dovuto liberare i lavoratori, li sta sostituendo con una rapidità che nemmeno gli economisti riescono più a razionalizzare. Le aziende che ne traggono vantaggio – e non sono molte – usano una retorica da Silicon Gospel: “fare di più con meno”, “sbloccare il potenziale”, “scalare l’impatto”. Traduzione: vendere soluzioni che dematerializzano il lavoro ma massimizzano i profitti.
E c’è una triste ironia: mentre Salesforce proietta la propria identità nel futuro via AI, i suoi stessi dipendenti diventano sempre più invisibili. Non è una metafora: molti dei compiti che un tempo richiedevano empatia, esperienza e intervento umano sono ora affidati a modelli linguistici con memoria a lungo termine. E questi modelli, a differenza dei lavoratori, non chiedono promozioni.
L’ultima chicca? Benioff ha dichiarato che “è il momento di accettare che certe attività non ci appartengono più”. Come se l’automazione fosse una forza naturale, inevitabile. In realtà è una scelta, e non certo neutrale. Decidere che un chatbot deve gestire il customer care non è progresso: è un compromesso fra costo e reputazione. Una scommessa su quanto l’utente sia disposto ad accettare risposte generiche purché immediate.
Nel frattempo, il “lavoro a valore” di cui parlano questi CEO non è stato ben definito. Forse sarà creare prompt per agenti AI. Forse sarà validare l’output dei LLM. O forse sarà semplicemente adattarsi a una nuova forma di servitù digitale, in cui la creatività umana diventa un sottoprodotto della pipeline automatizzata.
Il fatto che Benioff lo dica ad alta voce non è un segnale di trasparenza, ma un termometro della fase: l’esperimento è in corso, e il capitale umano è la variabile da ottimizzare. Bentornati nel laboratorio.