C’è una frase che ogni tanto si sente tra i corridoi della Silicon Valley quando qualcosa di veramente grosso accade: “This changes everything.” Stavolta, potrebbe non essere solo retorica da keynote. Google, che di solito gioca a fare il Dr. Frankenstein con i propri protocolli interni e li rilascia pubblicamente solo quando ha già vinto la partita, ha fatto qualcosa di inaspettato: ha donato il protocollo A2A (Agent-to-Agent) alla Linux Foundation. E non è un regalo altruista: è una dichiarazione di guerra. O meglio, di interoperabilità.

Il problema è antico quanto il software: gli agenti AI, oggi, vivono come feudi medievali, incapaci di parlarsi. Uno gestisce il CRM, un altro il ticketing, un terzo fa il sentiment analysis, e ognuno si comporta come se il resto dell’azienda non esistesse. Il risultato? Intelligenze artificiali disconnesse, automazioni monche, e una cacofonia di sistemi che assomiglia più a una Torre di Babele digitale che a un ecosistema intelligente.

Il protocollo A2A cambia tutto questo. Letteralmente. Funziona come un “linguaggio comune” tra agenti AI, consentendo loro non solo di comunicare ma di cooperare in tempo reale, condividere contesto, delegare compiti e orchestrare decisioni complesse senza passare da intermediari umani o interfacce legacy. In altre parole, A2A non è solo un set di API: è l’infrastruttura semantica che mancava per costruire un Internet degli agenti.

E se il nome vi ricorda qualcosa, è perché Google l’ha pensato come naturale compagno del Model Context Protocol (MCP), altro regalo al mondo open che aveva già scosso gli architetti AI. MCP serve per collegare un modello linguistico a dati e strumenti esterni, come una USB per l’intelligenza. Ma era solo metà dell’equazione. Senza A2A, ogni agente rimaneva un terminale isolato, magari brillante, ma muto. Ora invece può parlare, negoziare, collaborare. E farlo in modo standard, scalabile e — cosa più importante — vendor-neutral.

Il coinvolgimento della Linux Foundation non è solo simbolico. È una polizza assicurativa contro l’egemonia di Big Tech. Portare AWS, Microsoft, Cisco, Salesforce, SAP e ServiceNow nello stesso consorzio non è un atto di bontà, ma di sopravvivenza. Nessuna azienda vuole dipendere da un singolo ecosistema AI proprietario. E Google lo sa: se non può dominare la rete, meglio dettarne le regole fondamentali. In fondo, anche TCP/IP era uno standard neutrale. Ed è su quello che si è costruito tutto il web.

Tecnicamente, A2A consente agli agenti di condividere intents, memorie, task queue e autorizzazioni, utilizzando un vocabolario interoperabile. Supporta contesto persistente, controllo degli accessi e logica di delega nativa. Immaginate un agente customer service che riceve una richiesta tecnica e la passa all’agente IT, il quale attiva l’agente DevOps per scalare l’infrastruttura. Il tutto senza che nessun umano debba orchestrare manualmente i passaggi. Automazione orizzontale, in tempo reale. Benvenuti nell’era post-API.

Questa architettura distribuita permette di implementare finalmente una cognizione aziendale collettiva. Non più intelligenze individuali ma un sistema nervoso interconnesso, dove le informazioni si propagano, le decisioni emergono, e le azioni si eseguono con una rapidità che fa impallidire qualsiasi flusso di lavoro tradizionale. Chi lavora con ERP e CRM sa bene cosa significhi avere agenti silos: errori ridondanti, doppio data entry, frustrazione, costi. Con A2A, invece, è possibile costruire un vero digital workforce integrato.

La parte più sottile, però, è culturale. A2A non è solo un protocollo tecnico, è un cambio di paradigma. Finora abbiamo pensato all’AI come a una somma di modelli: il migliore per la visione, quello per il linguaggio, quell’altro per l’analisi predittiva. Ma l’intelligenza non nasce dalla specializzazione, bensì dalla cooperazione tra moduli eterogenei. È l’orchestrazione, non l’ottimizzazione, che crea il salto di qualità. E in questo, gli umani sono ancora più lenti delle macchine.

L’ironia della storia è che Google, che da sempre viene accusata di voler dominare ogni standard, stavolta ha deciso di fare l’architetto invisibile. Perché chi costruisce le fondamenta del prossimo layer di Internet non ha bisogno di possederlo. Gli basta che tutti lo usino. È una strategia da impero, non da startup.

Certo, l’adozione sarà tutto fuorché lineare. Gli agenti AI sono ancora un concetto fumoso in molte aziende, confusi con chatbot glorificati o flussi RPA con un po’ di NLP. Ma la direzione è chiara: l’era dell’AI collaborativa è iniziata. E i protocolli come A2A ne saranno il tessuto connettivo.

Chi oggi ignora questi standard perché “non sono ancora pronti per la produzione”, domani si troverà a rincorrere consorzi industriali che li avranno già adottati. E chi aspetta che il proprio fornitore ERP faccia la mossa, scoprirà troppo tardi che il valore vero non è nel software, ma nella rete di agenti che lo governano.

Nel frattempo, Google avanza con il sorriso diplomatico del benefattore. Ma la verità è che ha appena disegnato l’ossatura della prossima generazione di AI aziendale. E se vi sembra una cosa da poco, ricordatevi che anche HTTP all’inizio era solo un protocollo. Poi ha conquistato il mondo.