C’è una nuova malattia professionale che si sta diffondendo tra i designer di tutto il mondo, ed è più insidiosa della sindrome del tunnel carpale: si chiama “prompt envy”. È quella sensazione fastidiosa quando un cliente ti mostra un’immagine generata da Midjourney, ti dice con entusiasmo che l’ha fatta “in due minuti” e poi ti chiede perché il tuo preventivo prevede due settimane e quattro zeri. Succede a Berlino come a Buenos Aires, a Toronto come a Milano. Benvenuti nell’era globale del graphic design AI, dove tutti credono di essere diventati art director.
Nel 2025, le AI generative hanno colonizzato l’immaginario visivo con una velocità che nemmeno i meme. Secondo un’inchiesta di Wired US pubblicata a febbraio, più del 60% dei contenuti visivi nei pitch commerciali delle startup early-stage è ormai prodotto con strumenti come DALL·E 4, Ideogram e Leonardo.Ai. Non per mancanza di competenze, ma per quella fame di velocità che uccide ogni riflessione. “Speed is the new creativity”, dicevano i creativi nel 2015. Oggi, la frase è diventata un boomerang.
Secondo Fast Company, nel primo trimestre del 2025 le agenzie pubblicitarie di medie dimensioni negli Stati Uniti hanno ridotto del 37% i budget destinati al design “umano”. Eppure, nello stesso periodo, è aumentato il tasso di rework su progetti visivi realizzati con AI. Tradotto: spendono meno all’inizio, pagano di più alla fine, e nel mezzo perdono tempo e credibilità. Ma il danno peggiore è quello invisibile: la lenta erosione della percezione di valore del designer.
Perché in questa nuova epoca, non si paga più il design. Si paga la capacità di far sembrare il design qualcosa che l’AI non può replicare. Sì, è diventato un trucco di prestigio. Ma attenzione: il pubblico è cambiato. Come nota Creative Review, molti committenti under 35 non hanno mai lavorato con un designer professionista prima d’ora. Per loro, Figma è già “troppo complicato” e l’estetica si misura in base a quanto somiglia a un filtro di Instagram.
Il paradosso è che mentre la qualità dell’output visivo migliora, la qualità del pensiero visivo si degrada. Un logo creato con AI può sembrare “pulito”, ma è spesso un cadavere estetico senza storytelling, senza strategia, senza anima. È un contenitore vuoto che funziona finché non deve comunicare qualcosa. Come scrive Dezeen nel suo speciale di aprile 2025, “le AI non progettano: aggregano. Non propongono: riassemblano”.
Eppure, anche nel design d’autore, il virus si insinua. Uno dei finalisti dell’ultima edizione dei D&AD Awards ha rivelato che il concept visivo della sua campagna globale era nato da “una sessione di prompt casuali” su Runway. Non è scandaloso. È solo lo specchio di un mondo in cui il design non è più un atto intenzionale, ma un incidente fortunato. Si progetta come si scrolla TikTok: sperando che qualcosa catturi l’occhio.
Il problema non è l’AI. Il problema è l’analfabetismo visivo crescente di chi decide, commissiona, approva. Il graphic designer, oggi, non è messo in crisi dal tool, ma dalla narrazione tossica attorno a quel tool. Come racconta il designer olandese Sander Sturing su It’s Nice That, “non devo competere con DALL·E. Devo competere con il cliente che crede che DALL·E basti”.
E così il lavoro si trasforma: meno concept, più damage control. Meno creatività, più mediazione. L’AI diventa non tanto uno strumento, ma un altro stakeholder al tavolo. Uno stakeholder muto, veloce e iperproduttivo, che però non capisce le esigenze del brand, del pubblico o del canale. Come ha scritto recentemente Pentagram in un report interno trapelato su Substack, “il vero costo dell’AI nel design non è l’automazione, ma la confusione”.
Confusione che costa caro. Perché se il cliente si convince che bastano cinque immagini generate in 4K per costruire un’identità visiva, finirà per scoprire troppo tardi che serviva molto di più: posizionamento, direzione creativa, architettura comunicativa, capacità di sintesi narrativa. Tutte cose che non si trovano in un modello generativo, ma nella testa di chi sa usarlo con criterio — e, se serve, lasciarlo spento.
Il risultato? Una professione sempre più sottopagata, compressa, ridotta a reaction design. Non si progetta più per guidare, ma per rattoppare. Non si anticipano i trend, si inseguono i glitch. E nel frattempo, l’AI migliora, certo, ma anche il cinismo dei clienti. Perché se “l’AI fa tutto”, allora perché pagare qualcuno per rifinirlo?
Il punto è che la generazione immagini AI è diventata uno specchio deformante: riflette le nostre ossessioni per la velocità, ma cancella la profondità. Riflette l’estetica, ma cancella l’etica. Riflette il risultato, ma cancella il processo. Un processo che, per chi fa design vero, resta fatto di errori, intuizioni, confronti, revisioni — e soprattutto, di tempo. Il tempo del pensiero. Quello che nessun algoritmo ha ancora imparato a simulare.
C’è chi spera che la bolla esploda. Chi, come la designer londinese Morag Myerscough, invoca un ritorno al “tattile, imperfetto e umano”. Ma la verità è che il futuro non sarà una restaurazione romantica. Sarà un ibrido, e la vera sfida sarà far capire che usare l’AI non equivale a capire il design.
In altre parole, il nuovo analfabeta visivo non è chi non sa disegnare. È chi non sa distinguere tra un’immagine generata e un’idea pensata. E purtroppo, ce ne sono sempre di più.
Ovviamente è solo una provocazione intellettuale!!