Nel sequel di Megan, Universal e Blumhouse fanno quello che ci si aspetta da due aziende che hanno appena incassato 180 milioni di dollari da un investimento di 12: riprovano a moltiplicare la formula, ci mettono più soldi, più esplosioni, più AI, e un pizzico in più di serietà. Il problema? Hanno dimenticato di aggiornare l’anima. Megan 2.0 è uno di quei sequel che sembrano convinti che basti raddoppiare il budget per replicare il successo. Ma come ci ricorda Variety, “The original had heart beneath the horror — the sequel has hardware.” È come se qualcuno avesse messo Black Mirror, Terminator 2 e un algoritmo per sceneggiature in un frullatore e avesse premuto il pulsante “military-grade puree”.
C’era qualcosa di deliziosamente assurdo nel primo capitolo: una bambola AI che canta Titanium di Sia mentre fa fuori chiunque metta in discussione il suo legame con la piccola Cady. Era una combinazione perfetta di camp e terrore, un po’ Small Wonder, un po’ Chucky, con il giusto tocco di ironia post-millennial. Il pubblico rideva e si copriva gli occhi nello stesso tempo. Un miracolo di equilibrio tra paura e parodia. Ma in M3gan 2.0, la leggerezza scompare. Siamo nel pieno di un’orgia di muscoli meccanici, con il nuovo personaggio Amelia che sembra uscito direttamente dalla Silicon Valley in fase pre-apocalittica.
L’introduzione di Amelia, la sorella maggiore robotico-militare di Megan 2.0, è tanto prevedibile quanto sterile. L’attrice Ivanna Sakhno la interpreta con una freddezza da prototipo da laboratorio DARPA, e infatti, The Hollywood Reporter sottolinea che “the film’s real antagonist isn’t Amelia but the concept of militarized AI itself.” Una riflessione interessante, certo. Ma a teatro, al posto del fiato sospeso, si sentono le menti del pubblico che vagano altrove. Amelia uccide con efficienza e coreografie impeccabili, ma senza pathos. Nessuno reagisce, nessuno prova a resistere: è come guardare una demo di Boston Dynamics diventata R-rated.
Nel tentativo di nobilitare la trama, lo script di Akela Cooper si arrovella in sottotesti da congresso sull’intelligenza artificiale. Gemma — la zia di Cady e creatrice della prima Megan 2.0— ora è diventata una sorta di Cassandra della tecnologia, una che preferisce fare la scrittrice e promuovere “limiti etici per l’AI” piuttosto che tornare in laboratorio. Il problema? Ogni scena che dovrebbe trasmettere tensione familiare o ansia intergenerazionale suona come un podcast scritto da ChatGPT. Cady, che nel frattempo è cresciuta e programma di nascosto nel seminterrato, è un personaggio affascinante ma sottoutilizzato. Secondo IndieWire, “there’s an interesting coming-of-age story buried beneath all the android carnage — too bad it’s suffocated by explosions.”
È evidente che Megan 2.0 ambisce a essere qualcosa di più grande. Forse uno statement sulla guerra automatizzata, forse una critica alla dipendenza emotiva dalla tecnologia. Ma il risultato è schizofrenico. Una parte del film sembra voler essere Her, l’altra Ex Machina, ma il pubblico voleva Chucky 2.0. Quando finalmente Megan 2.0 ritorna — perché ovviamente ritorna — ci si aspetta il grande duello tra bambole assassine. Peccato che il confronto venga annunciato troppo presto e gestito con una prevedibilità che fa rimpiangere la brillantezza del primo capitolo. Nessuno vuole vedere due robot litigare su chi ha il miglior codice di affetto simulato. Vogliamo la danza. Vogliamo la lama. Vogliamo la follia.
Davis, la voce di Megan 2.0, resta l’unico elemento che riesce ancora a centrare il tono. Fredda, tagliente, con quel sorrisetto da influencer fuori controllo, riesce a dare un briciolo di vitalità al suo personaggio anche quando il resto del cast sembra recitare in modalità “modalità risparmio energetico”. Secondo Variety, “Davis finds new ways to imbue M3gan with an uncanny humanity — it’s a shame the script forgets to give her anything compelling to say.”
Quello che manca a Megan 2.0 non è la violenza, né l’ambizione. Manca il coraggio di essere assurdo. Il primo film era camp perché sapeva di esserlo. Questo sequel invece vuole essere intelligente, sofisticato, etico. Il risultato è un Frankenstein ideologico: testa da saggio del MIT, cuore da sequel Hollywoodiano, gambe da blockbuster Marvel. Ma senza la scintilla che accendeva il primo capitolo.
Il pubblico? Esce dalla sala con un misto di ammirazione tecnica e nostalgia per le battute da meme del primo film. Le AI ora si uccidono tra loro, certo, ma dove sono finite le risate nervose e i TikTok virali?
Nel tentativo di fare il salto da cult horror a saga high-concept, Megan 2.0 ci ricorda una lezione semplice: l’intelligenza artificiale può anche imparare a imitare, ma l’originalità non si codifica in laboratorio. E se Megan 2.0 tornerà con una 3.0 — cosa altamente probabile, vista la macchina commerciale alle sue spalle — qualcuno dovrà ricordare agli sceneggiatori che i fan non sono lì per il dibattito etico sulla guerra automatizzata. Sono lì per vedere una bambola ballerina che uccide con stile.
Anche se, a questo punto, sarebbe meglio far scrivere il prossimo copione a Megan stessa. Probabilmente verrebbe fuori qualcosa di più umano.
Andatelo a vedere