Era tutto scritto, bastava leggere. Anzi, bastava leggere bene. Perché già nel 2021 il Financial Times scriveva che molte startup di intelligenza artificiale stavano “confondendo l’automazione con l’illusionismo”. Invece si è preferito applaudire, finanziare, gonfiare valutazioni. Fino all’inevitabile: Builder.ai, celebrata come il “WordPress per app”, si è dissolta nel nulla come un prompt mal scritto su ChatGPT. E non è sola. È solo la più recente.

Qualcuno ricorda Stability AI? Probabilmente no, e il motivo è proprio questo. Dopo il boom mediatico del 2022, con Stable Diffusion a trainare una rivoluzione visiva distribuita e open source, la startup britannica era diventata il poster boy dell’AI open. Salvo poi scoprire, sempre secondo WSJ e FT, che la sostenibilità del modello di business era una narrazione più artificiale dell’intelligenza. L’ex CEO Emad Mostaque si è dimesso nel 2024, in mezzo a una girandola di cause legali, defezioni e quella fastidiosa sensazione che il prodotto reale non fosse l’AI, ma la narrativa. Non aiutava il fatto che l’azienda spendeva più in GPU che in stipendi.

La storia si ripete: la promessa ipersemplificata, la demo finta, l’excel truccato. Infatti, sempre il Financial Times ha raccontato nel 2023 di Inflection AI, una startup fondata da ex Google DeepMind e Reid Hoffman di LinkedIn. Valutata oltre 4 miliardi prima ancora che il prodotto vero (Pi) vedesse la luce, ha poi ridimensionato tutto. L’AI “empatica” doveva cambiare il rapporto tra uomo e macchina. Poi è diventata una funzione accessoria integrata da Microsoft in Copilot. La montagna ha partorito… l’ennesimo widget.

Eppure gli investitori sono lì, pronti a firmare assegni da centinaia di milioni per “la prossima OpenAI”, con la stessa attenzione con cui si approva una delivery su Glovo. È così che si crea un mercato drogato dal concetto di “first to hallucinate”, dove chi mente meglio sull’AI raccoglie di più. La Builder.ai è solo l’ennesima tacca sul muro. Lo chiamano AI-washing, ma forse dovremmo dire illusionismo venture-capitalistico.

Perché il punto è che i modelli non erano artificiali: erano finanziari. Prendi un’idea, mettila in una pitch deck con buzzword sufficienti a paralizzare un comitato etico, inonda LinkedIn di testimonial entusiasti e attendi il round successivo. Il prodotto? Viene dopo. Oppure non viene affatto. Chi ha bisogno di AI vera, quando puoi simulare una demo con un operatore indiano sotto NDA?

Nel caso di Builder.ai, la farsa è durata più del lecito. Già nel 2019 il Wall Street Journal aveva smascherato il trucco: il fantomatico “motore AI Natasha” era, in realtà, un costoso centro outsourcing in India. Ma ehi, era il 2019, e nessuno voleva rovinare la festa. Nemmeno Microsoft, che nel 2022 ci ha investito milioni, forse sedotta dalla buzzword più che dai byte.

Anche Humane AI, startup fondata da ex Apple, ha vissuto un simile destino tragicomico. Il suo dispositivo “AI Pin”, un gadget indossabile che prometteva di rimpiazzare lo smartphone, è stato definito da The Verge “una trappola per early adopters”. Prodotto mal funzionante, autonomia ridicola, UX ai limiti della distopia. Ma aveva raccolto oltre 200 milioni da Tiger Global e Sam Altman, quindi qualcosa doveva pur valere, no? No.

La lezione è brutale ma necessaria. Non basta dire “AI” per essere innovativi. Non basta avere un co-founder con un TEDx e un’animazione di Midjourney per avere un prodotto. Il fatto che i venture capitalist continuino a cascarci (o a fingere di farlo) non è solo miopia, è corresponsabilità. Chi investe in una narrazione senza fondamento tecnico, alimenta l’hype che poi crolla su tutto il settore. A pagarne il prezzo non sono solo gli investitori incauti, ma anche le aziende vere, quelle che l’AI la costruiscono davvero, con R&D, dati, costi e fallimenti veri.

Ecco perché serve una nuova due diligence, una che non si fermi alla superficie. Un investitore serio oggi deve pretendere accesso al codice, ai dataset, alle metriche di validazione. Deve portare esperti di AI nei consigli d’amministrazione, non solo PR e CFO con mani tremanti. Perché la prossima bolla, quella che sta già gonfiandosi dietro le IPO di xAI, Anthropic e Mistral, sarà più grande e rumorosa.

L’intelligenza artificiale è reale. Funziona. Cambierà tutto. Ma non è magica, e non vive nel pitchdeck di chi promette di “democratizzare lo sviluppo software con prompt in linguaggio naturale”. No, quello è il trailer di un film che abbiamo già visto. E che finisce sempre con lo stesso finale: un CEO in conference call che dice “non abbiamo più contanti”.

Nel frattempo, i creditori bussano alla porta. Amazon chiede 85 milioni. Microsoft 30. Viola Credit ha congelato tutto. I dipendenti senza stipendio twittano, gli avvocati si accalcano, la stampa finalmente si sveglia. E i founder? Beh, loro probabilmente stanno già lavorando al prossimo PowerPoint. Con una nuova buzzword. E un’altra AI che non esiste.