Leadership Talk

C’è una strana sindrome, tutta europea, che potremmo definire “burocrazia salvifica”. Una fede incrollabile nella capacità taumaturgica della regolamentazione di sistemare ciò che il mercato, la competizione, la libertà d’impresa e, diciamolo pure, il rischio non sono riusciti a far funzionare. E ogni volta che il mondo corre più veloce delle nostre istituzioni, ecco spuntare un nuovo acronimo, un’altra direttiva, l’ennesimo atto. Oggi tocca al Cloud AI Development Act, la nuova formula magica che dovrebbe trasformare l’Europa in una superpotenza digitale. O quantomeno farci sentire un po’ meno provinciali rispetto a USA e Cina.

A riportare tutti con i piedi per terra ci ha pensato Antonio Baldassarra, in un convegno organizzato da Seeweb che avrebbe potuto tranquillamente intitolarsi “come distruggere un ecosistema tecnologico con le migliori intenzioni”. Il suo intervento è stato un colpo di frusta nel rituale autoreferenziale di molti eventi digitali: nessun entusiasmo da slide, nessuna retorica sull’“AI etica”, ma un’analisi cruda e chirurgica su cosa accade davvero quando si regolamenta “contro qualcuno”. Spoiler: vincono sempre gli stessi, e no, non sono le PMI italiane.

Baldassarra ha il merito di dire quello che troppi evitano: l’economia digitale si fa coi conti economici, non con i proclami. E ogni volta che la politica interviene con l’intenzione di “riequilibrare”, finisce per spianare ulteriormente la strada ai big tech. L’eterogenesi dei fini, citata come asse portante del suo discorso, non è solo una teoria filosofica: è la descrizione perfetta di vent’anni di errori normativi che hanno consegnato il controllo del cloud europeo a una manciata di multinazionali americane.

Il caso del procurement pubblico digitale è emblematico. Secondo dati pubblicati da Handelsblatt e Les Echos, nel 2023 circa l’82% dei contratti cloud delle pubbliche amministrazioni europee è stato assegnato a tre fornitori: Amazon AWS, Microsoft Azure e Google Cloud. In Italia, il rapporto AgID sulla digitalizzazione della PA conferma il trend: il 76% delle amministrazioni centrali ha optato per fornitori extra-europei.

Nel 2023, la spesa delle PA europee ha raggiunto 34 miliardi di euro, una cifra che avrebbe potuto rafforzare gli ecosistemi nazionali, ma che invece ha sistematicamente escluso tutti gli operatori europei, italiani inclusi. Il tutto avviene con la stessa logica con cui si acquistano i detersivi: puntando solo al prezzo più basso, su grandi lotti, senza alcun interesse per la sostenibilità industriale.

Ma c’è di peggio. Le norme europee, pensate per “innalzare gli standard”, stanno diventando strumenti di paralisi per le imprese più piccole. La NIS2, che doveva migliorare la sicurezza digitale, è stata trasformata in una trappola per le PMI: mesi di burocrazia, consulenze, reportistica, con l’effetto collaterale di distogliere attenzione e risorse dal core business. Come dire: ti metto il casco integrale, il giubbotto antiproiettile, ti faccio firmare tre documenti sulla sicurezza, ma poi ti mando a correre una maratona. A piedi scalzi.

Il mantra europeo della “simmetria regolamentare” è in realtà un altro modo per dire che le regole sono scritte pensando a chi ha già vinto.

“Quando si impone lo stesso adempimento a chi fattura un miliardo e a chi fattura un milione, il risultato non è equilibrio: è soffocamento selettivo.” È come se il regolamento di Formula 1 venisse imposto anche ai ciclisti della domenica, “per parità di condizioni”. Il problema è che nella narrazione ufficiale, questo viene chiamato progresso.

A questo punto, qualcuno potrebbe domandarsi: ma allora, l’Europa non può fare nulla? Certo che può. Ma deve smettere di credere che l’innovazione nasca nei corridoi dei ministeri o nei comitati tecnici. Baldassarra lo ha detto con chiarezza imbarazzante: la strada non è Gaia-X, quel progetto franco-tedesco che doveva essere l’alternativa sovrana ai cloud americani e che oggi è poco più di un esercizio accademico. Simpatico, ma sterile. L’innovazione non si disegna nei board intergovernativi, si sporca le mani nel mercato.

Negli Stati Uniti le big tech nascono nei garage, non nei tavoli ministeriali. Da noi, al massimo, si partorisce l’ennesimo comitato di valutazione strategica della trasformazione digitale. La differenza è tutta lì: non c’è visione di scala, non c’è mentalità da unicorno. Peggio ancora: anche quando un’azienda italiana comincia a crescere, le regole – o la loro interpretazione – la riportano al guinzaglio. A forza di volerla tutelare, la si soffoca.

Eppure, i capitali ci sarebbero. Solo che volano via, verso lidi più agili, più appetibili, meno ossessionati dalla compliance (i dati dell’European Investment Fund, il 68% del venture capital europeo nel tech finisce all’estero). Il fatto che la maggior parte degli investitori europei preferisca allocare fondi nelle startup americane dovrebbe essere un allarme rosso, e invece lo trattiamo come una curiosità da convegno.

Il problema strutturale, quello vero, è la concentrazione della domanda pubblica. Quando c’è un solo acquirente – lo Stato – e quel soggetto impone condizioni progettate su misura per i colossi globali, ogni tentativo di costruire un mercato pluralista finisce in un angolo. Si forma un monopolio di fatto, non per mancanza di offerta, ma per disegno sistemico. Non si tratta di invocare protezionismi o riserve di mercato: si tratta di non costruire appalti con barriere d’ingresso camuffate da “efficienza procedurale”.

La verità è che la PA, nel suo ruolo di locomotiva degli investimenti digitali, orienta tutto l’ecosistema: le competenze, la domanda formativa, perfino le scelte tecnologiche. Se la domanda pubblica impone solo soluzioni marchiate AWS, Microsoft o Google, è inevitabile che le aziende, le università e i professionisti convergano su quei brand. Nessuna evoluzione tecnologica è possibile senza pluralismo di domanda, e questo pluralismo oggi è una chimera.

Il paradosso finale è tragicamente elegante: mentre Bruxelles scrive il Cloud AI Development Act per correggere le distorsioni, è proprio l’approccio regolatorio a crearle. Vogliamo regole orizzontali in un mercato verticalizzato, vogliamo equità in un contesto dove la disparità è strutturale. E nel tentativo di fare giustizia, finiamo per annullare la concorrenza, per decreto.

Antonio Baldassarra non ha offerto ricette salvifiche. Ma ha avuto il merito di smontare il mito che basti una buona legge per correggere vent’anni di miopia industriale. Il suo è un invito, brutale ma necessario, a guardare dove vanno davvero i soldi, a chi finisce davvero il potere, e perché continuiamo a chiamare “norme per la competitività” quelle che rendono impossibile competere.

La domanda vera, alla fine, non è se l’Italia sia pronta per un Cloud AI Development Act. La domanda vera è: siamo pronti a smettere di costruire alibi regolatori e iniziare a costruire aziende?