Non chiamatela solo “sostituzione tecnologica”, perché la Cina non sta semplicemente cercando alternative ai chip americani. Sta costruendo un nuovo culto della resilienza artificiale, e lo sta facendo con una determinazione che gronda di strategia industriale, orgoglio sovranista e calcolo geopolitico. La notizia che Sophgo, produttore cinese di semiconduttori, abbia adattato con successo la sua compute card FP300 per far girare il modello di ragionamento DeepSeek R1, non è un semplice annuncio tecnico. È un atto di guerra, anche se siliconica. È l’ennesimo tassello del grande mosaico che Pechino sta costruendo per liberarsi dal giogo delle GPU Nvidia e dall’ecosistema software che, fino a ieri, sembrava imprescindibile per chiunque volesse fare intelligenza artificiale ad alto livello.

Ma andiamo con ordine. La compute card SC11 FP300 non è una scheda qualsiasi. Con 256 gigabyte di memoria ad alta larghezza di banda e una velocità di trasferimento dati che raggiunge 1,1 terabyte al secondo, questa piccola bestia di silicio è progettata per un solo scopo: sostenere il peso computazionale di modelli linguistici avanzati, quelli che si allenano per settimane, divorano petabyte e sputano fuori risposte più sofisticate di certi editoriali. E non è solo una questione di prestazioni nude e crude. Il test di verifica condotto dal China Telecommunication Technology Labs, un braccio armato del Ministero dell’Industria e dell’Information Technology, è stato superato con successo. Traduzione: lo Stato approva, la macchina funziona, il sogno della sovranità digitale è ancora vivo.

Questa corsa all’autarchia digitale è alimentata, paradossalmente, proprio dai vincoli che l’Occidente ha cercato di imporre. Le restrizioni all’export di chip imposte dagli Stati Uniti hanno innescato un’accelerazione senza precedenti nel settore AI cinese. Non si tratta più solo di competere, ma di sopravvivere. Il caso DeepSeek è emblematico. La seconda versione del modello, la R2, doveva uscire a maggio ma è rimasta bloccata in fase di sviluppo. Il motivo? Mancano le GPU di Nvidia, quelle benedette A100 e H100 che ora non possono più arrivare nei data center cinesi. E quindi? Quindi si improvvisa, si riadatta, si ottimizza ciò che si ha in casa. Ma soprattutto, si investe.

Sophgo non è sola in questa crociata digitale. Anche iFlyTek, altro nome simbolo dell’AI made in China, ha dichiarato pubblicamente di aver abbandonato del tutto i chip stranieri. Per addestrare la sua serie di modelli Xinghuo utilizza solo i chip Ascend 910B di Huawei. E attenzione, qui non si parla di piccoli esperimenti. Secondo Liu Qingfeng, il presidente dell’azienda, l’efficienza dell’addestramento è passata dal 25% al 73% rispetto ai chip A800 di Nvidia. Tradotto in strategia industriale: siamo ancora più lenti, ma stiamo correndo come ossessi per colmare il gap. Perché perdere tre mesi nello sviluppo di un modello AI, in un mondo dove ogni rilascio segna uno scatto evolutivo, è già una mezza sconfitta. Ma è anche un investimento di lungo termine che riduce la dipendenza strategica.

Il paradosso è che proprio i vincoli americani hanno creato l’ecosistema alternativo che oggi Washington teme. Quando nel 2019 gli Stati Uniti hanno messo iFlyTek nella Entity List, probabilmente pensavano di soffocare l’azienda. Quello che hanno ottenuto, invece, è stato il suo pivot verso l’indipendenza. E con lei, centinaia di altri attori della filiera hanno iniziato a pensare in mandarino anche quando scrivevano codice. La decisione recente di includere Sophgo Technologies, Sophon Technology (Beijing) e Xiamen Sophgo Technologies nella lista nera è solo l’ultimo episodio di una saga dove le sanzioni funzionano più da catalizzatore che da deterrente.

Sul piano tecnico, però, il divario resta. L’ecosistema Nvidia non è solo hardware. È CUDA, è TensorRT, è una suite di strumenti che semplifica e potenzia ogni fase della pipeline AI, dall’addestramento al deployment. Replicarlo è una sfida colossale. Eppure, la Cina non sembra spaventata. Al contrario, sembra eccitata. Perché ogni ostacolo diventa una scusa per innovare in modo non ortodosso, magari meno elegante, ma tremendamente efficace. Ecco allora che la collaborazione tra aziende come DeepSeek, Sophgo e Huawei non è solo una risposta tecnica, ma un messaggio politico: l’AI cinese non sarà un clone, ma un organismo differente, adattato al suo habitat.

Il contesto globale rende tutto ancora più interessante. Mentre in Occidente ci si interroga su come regolare l’AI generativa, in Cina ci si concentra su come sostenerla con infrastrutture locali. Mentre OpenAI e Google si giocano il titolo di campione mondiale a colpi di LLM sempre più esoterici, DeepSeek e iFlyTek lottano per farli funzionare con chip di produzione nazionale, spesso meno performanti ma molto più disponibili. È una partita a scacchi dove la qualità pura dell’intelligenza artificiale è solo una delle variabili. L’altra, quella meno sexy ma decisiva, è la capacità di controllare la filiera produttiva.

Ciò che emerge è un nuovo paradigma: non vince più solo chi ha l’algoritmo migliore, ma chi riesce a farlo girare con il silicio che può produrre in casa. E mentre le Big Tech americane ottimizzano i loro modelli per i supercomputer da miliardi di dollari, Pechino punta a creare un’AI resistente, decentralizzata, scalabile su hardware autoctono. La potremmo chiamare “AI a chilometro zero”, se non suonasse troppo eco-chic per un settore che brucia energia più di un quartiere di Shanghai in pieno agosto.

In tutto questo, il ruolo dello Stato resta centrale. Le validazioni ufficiali come quelle del CTTL non sono solo certificazioni tecniche. Sono atti di legittimazione politica, garanzie implicite di supporto finanziario e normativo. E quando un governo autoritario decide che una tecnologia è strategica, l’effetto leva è mostruoso. Il risultato è che ogni compute card che passa un test diventa una bandiera. Ogni punto percentuale guadagnato in efficienza rispetto ai benchmark Nvidia è un comunicato da prima pagina. Ogni ritardo dovuto alle sanzioni è un motivo in più per raddoppiare gli investimenti in chip locali.

Se qualcuno aveva ancora dubbi sul fatto che la guerra dei chip sia anche una guerra dei modelli, ora dovrebbe vederlo con chiarezza. Non basta più avere dati e cervelli. Serve anche il ferro, e quel ferro deve essere tuo. Così, mentre il mondo si preoccupa dei bias, della regolamentazione e dell’etica delle AI, la Cina gioca una partita diversa. Una partita fatta di bande di memoria, larghezza di bus e cicli macchina. Roba noiosa per chi legge i titoli, ma fondamentale per chi vuole scriverli.

Ecco allora che la compute card SC11 FP300 di Sophgo diventa qualcosa di più di un componente hardware. È il simbolo di un nuovo ciclo tecnologico, in cui l’autonomia vale più dell’efficienza e il controllo conta più della performance. Un modello di sviluppo che non cerca solo di imitare l’Occidente, ma di superarlo attraverso un processo darwiniano spinto dal bisogno, non dal lusso.

Nel futuro prossimo, è probabile che la Cina continuerà a essere leggermente in ritardo sui chip più avanzati, ma sempre meno dipendente da chi quei chip li produce. E alla lunga, questa potrebbe essere l’unica vera forma di supremazia. Quella che non si misura in benchmark, ma in libertà strategica.