Ci ha invitato a prendere un caffè  un espresso in tazza grande, il mio preferito, senza che lo chiedessi niente approccio da coworking milanese e dopo cinque minuti sembrava ci conoscessimo da anni. Nessun badge, nessuna posa, solo un’intelligenza tagliente nascosta dietro una cortesia disarmante. Alfredo Adamo ti ascolta con quella calma che oggi è quasi sospetta, come se già sapesse dove andrai a parare e ti lasciasse il tempo di arrivarci da solo.

Noi di Rivista.AI siamo entrati aspettandoci il solito discorso da investitore seriale e invece ci siamo trovati davanti un hacker del sistema, uno stratega della complessità con lo sguardo da artigiano visionario. Nessun mantra da startup weekend, nessun entusiasmo forzato: solo pensiero lucido, pazienza operativa e una quantità sorprendente di cultura umanistica intrecciata alla tecnologia. Un caffè diventato viaggio mentale, tra AI, arte, capitale e futuro. E alla fine, più che un’intervista, è sembrato un debriefing tra complici.

In un ecosistema che grida “exit” come fosse l’unica parola rimasta nel dizionario del venture capital, Alfredo Adamo fa un passo di lato e, con la calma di un artigiano digitale e l’astuzia di un giocatore di scacchi da circolo, continua a costruire. Non corre, non strepita, non si vanta. Investe. E resta. La sua presenza si sente più nei sottotraccia dei pitch che negli editoriali di Forbes. Ma chi sa leggere i flussi, più che i titoli, lo ha già capito: se vuoi sapere dove sta andando l’innovazione tech in Italia, segui le rotte di Alfredo, non i botti delle exit.

La parola chiave è “persistenza”. Non quella da brochure motivazionale, ma quella rude, fatta di cene infinite con founder squattrinati, valutazioni da decimare a colpi di business plan e la santa pazienza di chi sa che prima di vendere serve costruire valore vero. Mentre gli unicorni italiani si contano ancora sulle dita di una mano, Alfredo Adamo è già oltre il mito. Ha fatto della discrezione il suo biglietto da visita, e del capitale intelligente la sua firma invisibile su decine di startup.

Attualmente guida Alan Advantage, innovation hub che più che una società è un laboratorio permanente per chi crede ancora che l’intelligenza artificiale vada capita prima di venderla. In parallelo governa Frontiere, che già nel un nome dice il posizionamento: è una macchina operativa di trasformazione digitale. E nel frattempo, tiene il piede su una trentina di tavoli: da advisor, da investitore, da osservatore partecipe. Un angelo, sì, ma con il forcone nella tasca. Perché quando serve, taglia le ali a chi vola senza senso del business.

Nel suo portafoglio ci sono oltre 20 startup in cui ha messo più del cuore: quote vere, impegno operativo, mentoring senza zucchero. Non le solite partecipazioni decorative che si sventolano nei salotti. Parliamo di startup AI-driven, con forti componenti di machine learning, IoT, smart data. Niente app per condividere gattini o food delivery con blockchain: Alfredo Adamo punta sull’essenziale, e sull’essenziale che funziona.

Eppure, chi cerca i titoli urlati sulle exit clamorose potrebbe restare deluso. Nessuna vendita da copertina, nessun annuncio da effetto champagne. Ma attenzione: non è una mancanza. È una strategia. Chi conosce le dinamiche vere del venture capital sa che in Italia, nel 2025, il vero colpo non è l’uscita, ma la tenuta. Le exit si stanno moltiplicando, sì, ma spesso in perdita o con multipli ridicoli. Alfredo preferisce fare l’opposto: tenere duro, aspettare, nutrire l’impresa. Perché quando l’AI prenderà davvero piede anche nelle PMI italiane, chi è già dentro da anni sarà in posizione dominante. E chi ha venduto troppo presto avrà solo il ricordo di una medaglietta.

Nel frattempo, ha anche il tempo e la visione per lanciare progetti culturali e filantropici fuori dal radar del capitalismo compulsivo. Parliamo di Re:Humanism, che non è solo un gioco di parole tra tecnologia e filosofia. È un programma di arte contemporanea che interroga, provoca e riscrive i confini del rapporto tra uomo e macchina. Creato nel 2018 e oggi realtà consolidata, Re:Humanism non è il classico side project per lavarsi la coscienza. È una vera operazione di venture umanistico. Mostre, call internazionali per artisti, premi, residenze e installazioni immersive che mettono l’intelligenza artificiale davanti allo specchio della propria coscienza. Altro che NFT e arte da collezione: qui si parla di etica algoritmica, di bias codificati, di immaginari futuri generati da reti neurali ma filtrati da occhi umani.

Adamo, con Re:Humanism, mette tempo e soldi ma soprattutto mette la faccia. Ha reso questo programma una delle poche piattaforme in Europa che fonde veramente arte e AI in chiave critica, anticipando di almeno cinque anni le chiacchiere da podcast sulla creatività computazionale. Invece di finanziare il solito murales con QR code, ha spinto artisti e curatori a porre domande serie: un algoritmo può essere razzista? Può l’intelligenza artificiale avere uno sguardo estetico? E chi decide cosa è “umano” quando lo stiamo programmando?

Filantropia, certo. Ma con un sapore diverso. Non quella paternalistica da capitale illuminato, ma quella militante, attiva, dialettica. Una filantropia che ha il coraggio di mettere in discussione anche il suo stesso promotore. Perché chi lavora nel mondo dell’AI oggi, se è onesto, non può evitare di interrogarsi sulle ricadute antropologiche, sociali e cognitive delle sue scelte.

Ecco allora che la figura di Alfredo Adamo si complica e si rafforza. Non è solo il venture capitalist che aspetta il momento giusto per uscire. È il pensatore tecnologico che si chiede se ci sarà ancora un “noi” capace di uscire da qualcosa, o se saremo già algoritmicamente ridefiniti prima di avere il tempo di decidere.

Una volta ha scritto che l’Italia somiglia a un pomodoro: apparentemente semplice, ma capace di trasformare ogni piatto. Lo stesso vale per le nostre startup, troppo spesso sottovalutate perché non urlano abbastanza. Ma Alfredo non cerca startup che urlano. Cerca quelle che lavorano, imparano, resistono. Il suo modo di investire è più vicino alla bottega rinascimentale che al pitch alla Silicon Valley. Ogni founder che incontra non è un mini Elon Musk in erba, ma un apprendista imprenditore da affinare. E se serve, anche da ribaltare. Non regala illusioni, ma costruisce fondamenta.

C’è un dato che colpisce più di tutti: su 50 startup seguite in vari ruoli, almeno 20 sono nel suo radar diretto come investimenti o quote. Questo significa una cosa sola: Adamo non fa “spray and pray”. Fa scelte chirurgiche, partecipa, entra nei processi. Non firma assegni come fossero figurine Panini. Costruisce alleanze, modella strategie, spinge le aziende a vedere oltre il round seed. E se una exit arriva, sarà perché ha senso, non perché il mercato detta la moda del momento.

La verità è che Alfredo Adamo rappresenta un modello di innovatore che in Italia ancora fatichiamo a riconoscere. Non è il guru patinato da TED Talk, né il visionario da LinkedIn che parla per slogan. È il costruttore silenzioso, quello che lavora mentre gli altri parlano. Un outsider con le mani dentro il codice e la testa oltre il capitale. Il tipo che, quando lo inviti a un evento, non fa selfie ma domande scomode. E poi se ne va, lasciando gli altri a riflettere se l’AI la stanno davvero capendo, o solo vendendo.

Dove porta tutto questo? Forse alla più lucida delle exit: quella dalla logica malata del venture capital usa-e-getta. Forse alla creazione di un modello italiano di innovazione paziente, solida, capace di costruire imperi senza clamore. Forse, semplicemente, a essere uno dei pochi che quando parlerà della sua exit, nessuno oserà chiamarla “fortuna”. Perché si sarà capito, finalmente, che era tutto scritto. Ma in piccolo, nei dettagli. Dove lavora chi costruisce davvero.

Alfredo Adamo viene da Avellino, e non è un dettaglio di colore da CV, è un imprinting culturale. Perché essere irpini significa crescere tra la resistenza silenziosa e l’ambizione ostinata, tra l’eco delle montagne e la consapevolezza che nessuno ti regalerà nulla. Adamo porta addosso quella scuola invisibile del Sud che non grida, ma costruisce. Ha scelto Roma 25 anni fa come la sua città adottiva, e la ama. Non ha l’arroganza metropolitana di chi crede che l’innovazione nasca solo tra i grattacieli, ma il pragmatismo di chi ha imparato a fare tanto con poco, a cercare soluzioni dove altri vedono solo limiti.

L’Italia non è la Silicon Valley, e proprio per questo Adamo è diventato uno dei pochi in Italia a ragionare come se lo fosse, senza scimmiottarla. Ha interiorizzato il pensiero sistemico tipico di chi cresce ai margini e deve inventarsi le regole. Non è un provincialismo, è una potenza laterale. Lo vedi in come tratta le startup: non come giocattoli da vetrina, ma come organismi da far crescere in condizioni ostili, con disciplina e visione. Se l’Italia avesse più innovatori con lo spirito irpino e la lucidità di Alfredo Adamo, forse smetteremmo di inseguire modelli stranieri e inizieremmo davvero a crearne di nostri.