Che Huawei giochi la carta del patriottismo tecnologico non è una novità. È dal 2019 che la multinazionale cinese è inchiodata al muro delle sanzioni statunitensi, e da allora si è vestita del ruolo di simbolo della resilienza cinese, un po’ martire, un po’ profeta. Ma questa volta, la narrativa del colosso di Shenzhen si sta incrinando pericolosamente. Al centro del dramma: il nuovo modello open-source Pangu Pro MoE 72B, che la compagnia ha recentemente sbandierato come un capolavoro di sviluppo “indigeno”, realizzato sui propri chip Ascend. La parola chiave, naturalmente, è “indigeno”. E proprio lì casca l’asino.

Perché quando una misteriosa entità GitHub chiamata HonestAGI nome più satirico che casuale ha pubblicato una breve ma devastante analisi tecnica affermando che Pangu mostrava una “correlazione straordinaria” con il modello Qwen-2.5 14B di Alibaba, i sospetti hanno preso il volo come stormi di corvi digitali. Non stiamo parlando di semplici somiglianze, ma di pattern, pesi e strutture che secondo diversi sviluppatori lasciano poco spazio all’immaginazione. È l’equivalente tecnico del trovare il DNA di uno scrittore rivale nei tuoi manoscritti inediti.

La reazione di Huawei, attraverso la sua divisione Noah’s Ark Lab, è stata tanto rapida quanto prevedibile: negazione categorica, comunicato pulito, linguaggio formale da compliance officer. Nessun fine-tuning su modelli di terze parti, tutto addestrato in casa, rigorosamente sui chip Ascend. Amen. Ma l’ammissione, mascherata da trasparenza, che alcuni “codici open-source” siano stati utilizzati, anche se “con rispetto rigoroso delle licenze”, ha solo aggiunto benzina al fuoco. Soprattutto perché la repository originale di HonestAGI è misteriosamente scomparsa poco dopo la pubblicazione delle accuse, lasciando dietro di sé solo un’eco inquietante: la verità, come il codice sorgente, è volubile e facilmente cancellabile.

Nel frattempo, la presunta “voce interna” un auto-dichiarato dipendente Huawei ha pubblicato un lungo post su GitHub che sembra confermare ciò che tutti sospettano ma nessuno vuole dire apertamente in Cina: che Huawei sta rincorrendo il treno degli LLM con affanno, e che il nuovo Pro MoE non è frutto di genio solitario ma un pastiche emergenziale, assemblato per non rimanere fuori dal gioco dominato da rivali ben più avanzati come DeepSeek, Alibaba, ByteDance e Tencent.

In questo contesto, parlare di “open source” è quasi una beffa semantica. In Cina, l’open source non è mai davvero open e raramente è solo source. È un’arma geopolitica, un simbolo di status, un badge di innovazione pseudo-sovrana da agitare davanti agli occhi del Partito e degli investitori. Ma è anche un campo minato etico, dove il confine tra ispirazione e appropriazione è più sottile di un livello di embedding.

Il modello Pro MoE, tecnicamente un Mixture-of-Experts da 72 miliardi di parametri, ha le stimmate di un prodotto costruito in fretta per mantenere la narrazione in piedi. Il fatto che sia stato addestrato su hardware proprietario Ascend è innegabile e serve a differenziare Huawei in un mercato in cui l’accesso alle GPU NVIDIA è limitato come le vacanze nei campi tibetani ma non basta. Non quando i tuoi stessi presunti dipendenti suggeriscono che sotto la superficie c’è un Frankenstein algoritmico cucito con i resti dei modelli altrui.

Ironia della sorte, questa vicenda si svolge proprio mentre la Cina assiste a una selezione darwiniana nel settore degli LLM: più di 200 modelli lanciati in meno di un anno, molti dei quali già spariti come start-up del metaverso. o1.AI, ad esempio, ha già abbandonato il campo, incapace di sostenere i costi esorbitanti dello sviluppo e dell’addestramento su larga scala. Il mercato si sta consolidando attorno a pochi player con le tasche profonde e il favore politico: Alibaba, ByteDance, Tencent, Baidu, e appunto DeepSeek, che con il suo R1 model ha messo tutti sotto pressione nel gennaio scorso.

In questo scenario, Huawei non può permettersi di sembrare debole. Ma nemmeno può permettersi una figuraccia pubblica che screditi la narrativa dell’“innovazione indigena”. La posizione è precaria: da una parte, l’ambizione di leadership nazionale nel settore AI, magari per alimentare altri settori come la difesa o la sorveglianza predittiva. Dall’altra, la realtà tecnica, che richiede anni di sviluppo, dataset puliti, modelli robusti e una comunità che sappia leggere tra le righe o tra i token.

C’è poi un sottotesto interessante: l’ossessione per i benchmark, le classifiche e i leaderboard. In Cina come altrove, l’intelligenza artificiale è una corsa a chi ha il modello più “grande”, più “potente”, più “open”. Ma quando l’open source diventa un paravento dietro cui nascondere derivazioni poco chiare, si rischia di trasformare l’ecosistema AI in un teatro delle marionette. Con modelli che parlano come Qwen ma si travestono da Pangu, e sviluppatori che fanno reverse engineering su Hugging Face come detective privati del XXI secolo.

Il problema non è tanto che Huawei possa aver copiato. In fin dei conti, nel mondo open-source il riutilizzo del codice è una prassi accettata — entro certi limiti. Il problema è l’ipocrisia sistemica: dire di voler creare un modello nazionale, simbolo dell’autosufficienza tecnologica, e poi utilizzare (senza trasparenza piena) modelli di chi si vuole superare. È come sventolare il vessillo dell’indipendenza mentre si cammina sulle stampelle altrui.

In definitiva, questa non è solo una disputa tecnica. È un microcosmo della battaglia globale per l’egemonia dell’intelligenza artificiale, in cui i modelli sono armi, le licenze sono scudi, e ogni linea di codice può essere una prova d’accusa. Huawei ha scelto di combattere su questo terreno con retorica e silicio, ma le community open-source GitHub in testa non dimenticano. E a volte, neanche perdonano.

Se Pangu Pro MoE è davvero un modello “indigeno”, allora la Cina ha davvero fatto un salto in avanti. Ma se è un clone mascherato, allora è solo l’ennesima pantomima tecnologica costruita per la propaganda interna. In entrambi i casi, il danno d’immagine è fatto. E in un mercato dove la fiducia vale quanto l’accuratezza, anche Huawei dovrà imparare che l’open-source non perdona chi predica bene e copia male.