C’è un elefante nel salotto dell’industria musicale. Non è Spotify, non è Apple Music e non è nemmeno TikTok. È l’intelligenza artificiale. Silenziosa, ubiqua, famelica. Alimentata da anni di dati audio rastrellati senza autorizzazione, raffinata da algoritmi ingordi e addestrata su decenni di creatività umana. Eppure, nel momento in cui l’AI comincia a produrre “musica”, le grandi piattaforme con qualche nobile eccezione scelgono di ignorare la questione. O peggio, la cavalcano, sapendo benissimo dove conduce il sentiero: un panorama dove il suono è solo contenuto, l’emozione è un’API e l’autore è un dataset.
In questa distopia a 440 Hz, Deezer si distingue. Il CEO Alexis Lanternier ha detto chiaramente che “l’intelligenza artificiale non è intrinsecamente positiva o negativa”. Che è come dire che un coltellino svizzero non è buono o cattivo, ma se lo affidi a un killer, i risultati non saranno esattamente culinari. La piattaforma francese ha fatto una scelta che può sembrare ovvia ma che, nel contesto, è rivoluzionaria: etichettare i brani generati artificialmente. Un tag. Una piccola nota visiva che, in teoria, dice all’ascoltatore: “questo pezzo è stato partorito da un algoritmo, non da un cuore”. In pratica, un gesto di trasparenza radicale in un ecosistema che ha fatto del “non detto” il suo modello di business.
Secondo i dati ufficiali, i brani generati da intelligenza artificiale sono oggi lo 0,5% del catalogo di Deezer. Ma attenzione: il 70% di questi ha finalità fraudolente. Frodi. Manipolazioni. Truffe musicali. In altre parole, c’è già un intero sottobosco digitale che utilizza l’AI non per innovare, ma per clonare, saturare e monetizzare. Una replica perfetta di artisti veri, senza le loro ansie, i loro diritti, le loro royalties. È il deepfake della creatività: più è simile, più è pericoloso. Deezer, a differenza di altri, quando rileva questi casi, interviene. Cancella, segnala, agisce. Non è poco. È, anzi, un atto di resistenza.
Ma il problema è più profondo. Più sistemico. Più americano. Negli Stati Uniti, circa 250 artisti nomi che non si possono ignorare, da Billie Eilish a Nicki Minaj, passando per Pearl Jam e Katy Perry hanno firmato una lettera aperta contro l’abuso dell’AI generativa nel settore musicale. “Stanno usando senza permesso il nostro lavoro per addestrare modelli di intelligenza artificiale”, denunciano. Non si tratta di un’iperbole, ma di una dinamica ormai documentata: migliaia di ore di musica pescate da piattaforme pubbliche, utilizzate per costruire reti neurali in grado di produrre nuovi brani “alla maniera di”. Alla maniera di chi? Alla maniera loro. Senza pagarli. Senza citarli. Senza nemmeno chiedere il permesso.
Il punto è che, a differenza di altri settori, la musica è infinitamente replicabile. Non serve un corpo, un volto, una voce unica. Bastano pattern armonici, timbri vocali e strutture ritmiche. Bastano dati. E se c’è qualcosa che l’AI sa fare bene, è generare dati simili a quelli che ha già visto. O sentito. In questo gioco, l’artista diventa materia prima. Grezza. Esportabile. Sostituibile. “Catastrofico”, lo definisce la lettera dei musicisti. E non hanno torto. Perché qui non si parla solo di copyright, ma di dignità.
Secondo uno studio realizzato da CISAC e PMP Strategy, entro il 2028 l’intelligenza artificiale potrebbe sottrarre fino al 25% dei ricavi dell’industria musicale globale. Quattro miliardi di euro all’anno che spariscono in un click, diretti verso server anonimi e startup senza volto. Non è un’ipotesi futuristica: è un warning. Uno di quelli che, come sempre, il mercato ignorerà finché non sarà troppo tardi.
Il paradosso è che le stesse aziende che promuovono l’AI generativa come “democratizzazione della creatività” sono quelle che beneficiano economicamente della sua concentrazione. La retorica è inclusiva: “chiunque può creare musica!”. La realtà è monopolistica: “chiunque può creare musica… ma noi ci prendiamo il 90% delle revenue”. Mentre le major cercano accordi con le piattaforme e i legislatori restano immobili nella palude del “non ci capiamo niente”, l’AI avanza. E non ha bisogno di permessi, manager o festival. Le basta un prompt.
La verità, quella più scomoda, è che l’intelligenza artificiale applicata alla musica è una macchina di compressione del valore. Prende l’anima di un brano e la trasforma in un flusso di bit ottimizzato per l’ascolto passivo. Nessun graffio nella voce. Nessuna incertezza nel tempo. Nessuna improvvisazione. Solo perfezione algoritmica. Ma la perfezione è noiosa. E la noia, come sanno bene i designer di prodotti digitali, è l’anticamera dell’oblio.
Nel frattempo, Spotify continua a oscillare tra silenzi assordanti e algoritmi affamati di engagement. Apple Music, nella sua versione più lucida di ecosistema chiuso, evita lo scandalo mantenendo un profilo basso. Ma entrambi sanno che i brani IA non sono solo una nuova forma di produzione: sono una minaccia al loro stesso ruolo di intermediari. Se la musica può essere generata on demand, chi ha bisogno di curatori, playlist, label o persino di artisti? La logica è spietata. E tecnologicamente inevitabile.
C’è però un dettaglio che potrebbe rovesciare la partita. La fiducia. Quella tra pubblico e piattaforma. Tra artista e ascoltatore. Tra creatore e mercato. Deezer ha intuito che etichettare un brano AI non è una mossa tecnica, ma politica. È un modo per dire: “noi siamo dalla parte dell’umano”. In un mondo che finge di non vedere, questo vale più di un algoritmo. Ed è forse l’unica speranza di arginare quella che potrebbe diventare, molto presto, la più grande espropriazione culturale del XXI secolo.
Perché quando tutto sarà generato, chi distinguerà l’originale dal clone? Chi racconterà la storia dietro la canzone? Chi pretenderà di essere pagato, e non solo calcolato? E, soprattutto, chi si prenderà la briga di ascoltare davvero, con attenzione, quando tutto sarà progettato per essere dimenticato entro venti secondi?
La musica è sempre stata un atto umano, imperfetto, necessario. Lasciare che venga ridotta a prompt è come permettere che la poesia diventi una didascalia automatica per immagini stock. È comodo. È scalabile. È anche, a lungo andare, letale.
E forse è proprio questo che ci meritiamo, se continuiamo a chiamare “progresso” ciò che è, in fondo, solo una gigantesca scorciatoia verso l’irrilevanza.