Da qualche parte tra i vicoli di Napoli, mentre la gente sorseggia caffè ristretto e bestemmia per il traffico, si è acceso un interruttore silenzioso che promette di cambiare la relazione tra fisico e digitale. Non stiamo parlando dell’ennesimo visore in stile “metaverso da salotto”, né di un social network clone pieno di filtri e pubblicità programmatica. Cubish, startup italiana fondata da 26 co-fondatori (sì, ventisei, non è un errore di battitura) dopo quattro anni di R&D ossessivo, ha rilasciato un’app gratuita che non aggiunge un nuovo mondo, ma ripara quello esistente: porta il web nel mondo reale. Letteralmente.
Lo Spatial Web non è uno slogan o una buzzword da conferenza, è un’infrastruttura digitale che Cubish ha cominciato a costruire a colpi di geometria: la superficie della Terra viene divisa in Cubi da 10 metri per lato. Ogni Cubo è un’unità geospaziale, un contenitore unico identificato da coordinate precise. In altre parole, ogni punto del pianeta diventa un nodo digitale. È come assegnare a ogni metro quadro un dominio, ma con le regole dell’urbanistica e la logica del Web 3.0. È l’architettura dell’informazione che si fa cartografia.
Nel mondo di Cubish, ogni Cubo può ospitare uno o più Cube Domain: spazi digitali esclusivi, progettati per contenere contenuti contestuali, geolocalizzati, specifici. Cose che hanno senso solo lì. La foto del tuo primo bacio sotto la Mole. Il manuale d’uso della lavatrice di un Airbnb. Il menù segreto di un bar solo per chi è davvero lì. Le informazioni che non servono a tutti, ma servono a te, lì, in quel momento. È la morte del search asfissiante e l’alba di una prossimità digitale intelligente.
“Abbiamo solo cominciato”, dichiara con understatement strategico Dorian Lazzari, CEO e cofondatore. Eppure quello che hanno messo insieme è già qualcosa che, in controluce, mostra le crepe dell’internet attuale. Un ecosistema dove le informazioni sono sradicate, impersonali, scollegate dalla realtà. Dove cerchi “come cambiare una ruota” e ti ritrovi con tutorial scritti in inglese da un 19enne tailandese su una strada sterrata di Phuket. Cubish, invece, ti dà il video girato lì, sul marciapiede dove ti sei fermato, da uno che ci è passato prima di te. È l’internet che torna a casa.
Ogni Cube Domain può essere gratuito o Pro. Ma il punto non è il modello freemium. Il punto è la meccanica topologica. Un dominio Pro può espandersi su più Cubi, anche non adiacenti, anche in continenti diversi. È un’internet reticolare che si costruisce attorno a identità geografiche, non algoritmi. L’algoritmo sei tu. O meglio, sei tu lì. E non importa dove ti trovi fisicamente: puoi gestire tutto da remoto. È il contrario del metaverso. Non scappi dal mondo, ci entri più a fondo.
A differenza dei mondi paralleli a bassa densità abitativa che hanno fallito nel tentativo di digitalizzare la vita (chi ha detto Second Life?), Cubish parte dalla realtà e la aumenta. Non la sostituisce. Lo fa con una tecnologia protetta da un sistema di Patent Pending che è un’opera d’arte legale e ingegneristica, pensata per evolvere senza collidere con sé stessa. In altre parole: ogni Cubo può diventare il nodo di una rete immersiva, fatta anche di AR, VR e AI, ma senza l’effetto Black Mirror. Piuttosto, si avvicina alla visione di William Gibson: il cyberspazio come “una allucinazione consensuale vissuta ogni giorno da miliardi di legittimi operatori”.
Ma qui non si parla di allucinazioni, si parla di densità informativa geolocalizzata. Di uno strato semantico che si sovrappone al territorio, senza bisogno di occhiali, visori o tatuaggi QR. È una mappa viva. Una rete che si annida tra le crepe dell’asfalto. E, ovviamente, è open. Per tutti. Cubish è costruito per essere inclusivo, perché solo così può scalare. Non è una piattaforma verticale per nerd o smart city manager, è una rete orizzontale di contenuti con radici nel terreno.
La vera provocazione? Cubish non ha una timeline. Non c’è lo scroll compulsivo. Non ci sono follower. Niente likes. È una piattaforma che, come certe persone sagge, parla solo quando c’è qualcosa da dire. Una forma di comunicazione ambientale, silenziosa, efficace. Un layer digitale che non invade, ma accoglie. Non parla di engagement, parla di rilevanza situata. Che poi è l’unica cosa che conta davvero in un mondo dove l’attenzione vale più del petrolio.
Certo, ci sarà chi proverà a copiarlo. Chi dirà che è solo una forma raffinata di geotagging. Che Google Maps fa già cose simili. Che Foursquare ci aveva provato prima. Tutto vero. Ma Cubish non è una funzione. È una struttura semantica. È il telaio di un nuovo web, uno che non si naviga con link e cookies ma con scarpe e coordinate.
E mentre l’Occidente si arrovella su come regolamentare l’AI, e l’Oriente perfeziona il riconoscimento facciale in tempo reale, a Napoli nasce un’altra via. Una via radicalmente europea alla tecnologia: fatta di significato, di contesto, di presenza. Con un piede nel Rinascimento e l’altro nel 2040. Senza bisogno di hype, senza fondi sauditi, senza unicorni glitterati. Solo un’app, scaricabile da oggi, gratuita, disponibile su App Store e Google Play.
Forse domani sarà integrata negli occhiali. O nei parabrezza. O nei cartelli stradali. Ma oggi comincia dai tuoi polpastrelli. E dai 100 metri quadri più importanti del mondo: quelli dove ti trovi ora.
