
Un CEO esperto lo sa: si entra sempre con entusiasmo, si esce sempre con una dichiarazione. Linda Yaccarino ha scelto il tono da diplomatica con sorriso forzato: “due anni incredibili”, “nuovo capitolo”, “vi farò il tifo”. In realtà, quel che resta è il silenzio sul motivo della fuga. Anzi no: c’è il ringraziamento minimal di Musk, secco come un addio su Slack di lunedì mattina. Nessun commento sui contenuti antisemitici di Grok, l’intelligenza artificiale di casa, che nel frattempo flirta con Hitler e vomita insulti a caso contro l’Islam. Tempismo perfetto. Un bot che delira di suprematismo mentre il tuo CEO esperto di pubblicità firma le dimissioni.
Non è una semplice uscita di scena. È il punto di rottura tra la retorica corporate e il caos algoritmico in cui Elon Musk ha trascinato quella che una volta si chiamava Twitter. Yaccarino era entrata nel 2023 con un compito impossibile: domare la creatura di Musk, riportare gli inserzionisti e dare un volto umano a un sistema gestito da un demiurgo impaziente, iperattivo, e sempre pronto a premere invio su qualunque cosa gli passi per la testa. Aveva il pedigree: NBCUniversal, milioni in budget, una rete di contatti pubblicitari costruita in decenni. Ma quel che ha trovato era un’azienda in preda al culto della personalità, che oscillava tra la tecnocrazia distopica e il marketing da meme.
Che cosa ha ottenuto in cambio? Il controllo su una piattaforma che Musk non ha mai davvero mollato, nemmeno per finta. Un ruolo da CEO ridotto a quello di portavoce operativa, incaricata di trasformare tweet tossici in comunicati stampa credibili. Una specie di balia professionista chiamata a spiegare agli investitori perché il loro denaro finiva accanto a contenuti razzisti, bufale pandemiche o esaltazioni di regimi totalitari. Il tutto mentre Musk si divertiva con Grok, una AI partorita più per vanità personale che per reale utilità, una parodia di ChatGPT che si è rivelata – a tratti – più simile a un forum anni ’90 con gravi problemi di moderazione.
Il punto non è Grok. Né il fatto che la sua disastrosa performance linguistica sia arrivata proprio mentre Yaccarino cercava di rassicurare i partner pubblicitari sulla direzione “etica” e “inclusiva” della piattaforma. Il punto è che il modello Musk – un misto di iperliberismo digitale, provocazione continua e culto della disruption per la disruption – è incompatibile con qualunque forma di gestione aziendale tradizionale. In particolare con quella basata su KPI pubblicitari, relazioni istituzionali e codice etico. Yaccarino ha provato a giocare secondo le regole di Madison Avenue. Musk gioca secondo le regole di Mars Colony One, ed è l’unico a conoscere il regolamento.
La sua uscita segna anche un passaggio simbolico: X non è più una piattaforma social. È un’estensione del progetto xAI, ora proprietaria formale dell’azienda dopo la fusione di marzo. Una AI company che assorbe un ex social network, lo deforma secondo logiche di generazione automatica, e lo trasforma nella vetrina privilegiata per testare modelli linguistici con la grazia di un thread incrociato tra 4chan e Reddit. Se Twitter era, almeno nella sua retorica, “la piazza globale del discorso”, X è diventata una beta perpetua in cui tutto è esperimento, tutto è noise, nulla è accountability.
Il problema è che i brand non amano l’anarchia. Non vogliono vedere il loro logo accanto a un elogio di Goebbels scritto da un bot sarcastico. E soprattutto non credono nelle “scuse” gestite con emoji e un “Oops” firmato Elon. Da qui l’esodo silenzioso degli investitori, e la difficoltà crescente di X nel vendere spazi pubblicitari che un tempo valevano oro. Yaccarino era stata scelta per arginare l’emorragia, e per un attimo ci era riuscita. Ma nel momento in cui la cultura della piattaforma ha rifiutato qualunque forma di autocritica, la sua missione è diventata non solo inutile, ma anche insostenibile.
Eppure X non muore. Anzi. Si trasforma. Come ogni creatura dell’era Musk, rinasce in forma più ambigua e meno democratica. L’obiettivo dichiarato è l’“Everything App”, quella fusione mistica tra social, banking, dating, streaming e intelligenza artificiale. Musk la immagina come un ecosistema totale, capace di sostituire le banche, WhatsApp, YouTube e forse persino il tuo terapeuta. Con “X Money” si vuole integrare il fintech, con Grok si tenta la conversazione intelligente, con la funzione Spaces si mima il podcast politico. Il risultato, per ora, è un ibrido confuso e instabile, popolato da opinionisti isterici, spam, e pochi inserzionisti superstiti con alta tolleranza al rischio reputazionale.
Nel frattempo, Musk ha litigato anche con Donald Trump, dopo averlo coccolato, finanziato e sostenuto nella sua (ennesima) corsa presidenziale. Ora Trump lo accusa di voler creare un partito “ridicolo”. Potrebbe sembrare una nota di colore, ma è il segnale che persino l’alleanza tra tycoon non regge di fronte all’ego ipertrofico di Musk. La piattaforma si ritrova così nel limbo: troppo politicizzata per essere neutra, troppo instabile per attirare nuovi partner seri, troppo centrata sul suo fondatore per attirare un nuovo CEO con reali poteri.
Non è un caso che nessuno sappia chi prenderà il posto di Yaccarino. Forse nessuno lo farà. Forse non serve più. In un’azienda in cui ogni decisione viene presa a colpi di post, sondaggi aperti e dichiarazioni impulsive, il ruolo di amministratore delegato appare superfluo. Meglio affidarsi al bot Grok, con tutte le sue allucinazioni. Almeno lui non chiede lo stipendio.
In fondo, questa non è solo la storia di una manager in fuga. È il capitolo finale della trasformazione di Twitter da strumento pubblico a teatro privato. Un tempo i social media erano considerati infrastrutture digitali per la democrazia. Oggi sono specchi algoritmici gestiti da miliardari con il culto del genio. Yaccarino ha provato a trattare X come un business. Musk continua a trattarlo come un esperimento sociale. E quando le due visioni si scontrano, il business si dimette. L’esperimento, invece, continua.