Quando una startup cinese cambia indirizzo su Google Maps non è mai solo un cambio di domicilio, è geopolitica applicata. Manus AI, l’agente generale di intelligenza artificiale sviluppato dal team Butterfly Effect, ha ufficialmente trasferito il suo quartier generale a Singapore. Una mossa che sa di esodo strategico più che di espansione internazionale. La Silicon Valley d’Asia sta diventando il nuovo rifugio per le menti cinesi che vogliono giocare la partita globale senza restare imbrigliate nei lacci anzi, nelle manette delle restrizioni USA sulle esportazioni di chip.
La scelta non è esattamente un mistero. Il cofondatore Zhang Tao ha messo nero su bianco durante il keynote al SuperAI di Singapore il 18 giugno: ora Manus è una società con sede centrale nella città-Stato. Punto. Che abbia ancora team a Tokyo o in California è quasi una formalità, un paravento per i venture capitalist occidentali ancora ipnotizzati dal mito della diversificazione geografica. In realtà, il motivo è uno solo: chip Nvidia. Quelli buoni, quelli vietati a Pechino ma ancora teoricamente raggiungibili da Singapore. Diciamolo senza giri di parole: è l’ennesima triangolazione in stile Silicon Curtain, il nuovo sipario di silicio calato tra Cina e Stati Uniti.
Non è la prima volta che vediamo questo film. Prima Shein, poi TikTok, adesso anche l’intelligenza artificiale. E la sceneggiatura è sempre la stessa: startup cinese, tecnologia potenzialmente “dual use”, investimento americano sospetto, scrutinio del Dipartimento del Tesoro USA, fuga verso un paese terzo. La differenza? Manus AI non vende abiti o meme, ma algoritmi capaci di eseguire compiti complessi, automatizzare attività cognitive e, potenzialmente, diventare un nodo centrale nella nuova corsa globale alla supremazia dell’AI. Qui non si parla solo di market share, ma di egemonia computazionale.
Non a caso Washington ha puntato il microscopio finanziario su un recente round di finanziamento da 75 milioni di dollari, capitanato dalla californiana Benchmark. La valutazione è schizzata a 500 milioni in pochi mesi. I numeri fanno gola, certo, ma attirano anche attenzione indesiderata. Il Tesoro sta cercando di capire se questi soldi americani stiano, di fatto, foraggiando un potenziale cavallo di Troia tecnologico. E sì, la nuova normativa impone notifica obbligatoria per ogni investimento in AI che possa “danneggiare gli interessi degli Stati Uniti”. Definizione fluida, ovviamente, come tutte le buone armi regolamentari.
Manus, come DeepSeek prima di lei, è diventata rapidamente una delle stelle emergenti della AI made in China. Al suo debutto a marzo (su invito, ça va sans dire) aveva fatto parlare tutto il settore per la sua capacità di affrontare compiti sofisticati con una flessibilità notevole. Un piccolo agente software, forse, ma con ambizioni da imperatore. Eppure, come spesso accade, l’hype iniziale non è durato. I dati trapelati dalla stampa cinese raccontano di un calo drastico di utenti attivi mensili: da 20 milioni a marzo a 10 milioni a maggio. Uno tsunami competitivo provocato da colossi interni come ByteDance (con Coze Space) e Baidu (con AgentBuilder), che non hanno intenzione di cedere il palcoscenico a una startup, per quanto promettente.
Il risultato? Manus si guarda attorno e capisce che la Cina non basta più. Anche perché restare legati a Butterfly Effect, che secondo fonti cinesi ha ancora base operativa in patria, può diventare un handicap nella corsa alla scalabilità internazionale. Da qui il pivot: Singapore come nuovo centro operativo, con tanto di campagne di recruitment visibili sul sito ufficiale e piattaforme locali. I ruoli aperti vanno dal data analyst all’ingegnere AI, con stipendi mensili tra gli 8.000 e i 18.000 dollari. Numeri che non si vedono nemmeno in certe multinazionali, segno che Manus punta a costruire un dream team con il turbo.
Eppure la domanda sorge spontanea: può davvero una società con radici cinesi scrollarsi di dosso l’ombra di Pechino solo cambiando indirizzo IP? La risposta breve è no. Ma la risposta più interessante è: forse. La verità è che Singapore offre un terreno ambiguo ma fertile per questo tipo di operazioni. Da un lato è neutrale abbastanza da non far scattare immediatamente le sirene di allarme a Washington. Dall’altro ha le infrastrutture, il capitale umano e soprattutto le relazioni giuste per attrarre investitori occidentali senza passare per il filtro del Partito Comunista Cinese.
È la geopolitica dell’ambiguità, una strategia che Shein e TikTok hanno già perfezionato: decentralizzare l’apparenza, mantenere centralizzato il controllo. Con un’aggiunta: nella corsa all’AI, chi ha accesso ai chip ha il potere. E i chip buoni, quelli con più tensor core che scrupoli, oggi sono custoditi nei data center americani e distribuiti col contagocce a chiunque abbia anche solo un parente lontano a Shanghai. Trasferirsi a Singapore, in questo contesto, non è solo una questione di branding internazionale: è sopravvivenza strategica.
Il paradosso è che questo esodo dei cervelli cinesi non segna un cedimento del modello di innovazione interno, ma piuttosto una sua evoluzione darwiniana. Le startup come Manus non vogliono più fare la guerra dal cortile di casa, preferiscono combatterla da zone franche dove le regole del gioco sono più elastiche. È un segnale che la Cina sta, consapevolmente o meno, esportando la propria intelligenza artificiale, anche se lo fa con passaporti diplomatici temporanei.
Nel frattempo, gli Stati Uniti si trovano davanti a una contraddizione. Da un lato vogliono bloccare la diffusione di AI cinese per motivi di sicurezza. Dall’altro, continuano a finanziare (spesso senza saperlo) le stesse tecnologie attraverso fondi di venture capital che inseguono il prossimo “unicorn” a occhi chiusi. È come tentare di svuotare un oceano con un cucchiaio bucato, mentre si continua a riempire il secchio dal lato opposto.
E così, Manus AI diventa più di una semplice startup: è un microcosmo del futuro della tecnologia globale, dove la nazionalità è fluida, la sede legale è negoziabile e l’etica è una questione di latitudine fiscale. Ma sotto la superficie patinata degli investimenti, dei keynote e delle slide aziendali, resta una domanda inquietante: in un mondo dove le AI possono muoversi più velocemente delle regolamentazioni che cercano di contenerle, chi controlla veramente il futuro?
Spoiler: non è chi costruisce gli algoritmi, ma chi decide dove possono essere eseguiti. E per ora, a giudicare dalla mappa geopolitica dell’intelligenza artificiale, Singapore è l’equivalente digitale della Svizzera. Con qualche grado in più e molte illusioni in meno.