Non puoi bloccarlo. Puoi lamentarti, puoi invocare la proprietà intellettuale, puoi gridare alla rapina digitale. Ma non puoi fermarlo. Google continuerà a estrarre i tuoi contenuti, perfino se usi i suoi stessi strumenti per provare a impedirglielo. Se pensavi che il tuo sito fosse tuo, benvenuto nella realtà del 2025: sei solo un fornitore gratuito di dati per modelli di intelligenza artificiale che non ti citano, non ti compensano e cosa ancora più umiliante ti rendono irrilevante.

Si chiama SEO cannibalizzata, ma è molto più simile a un’espropriazione legalizzata.Cloudflare ci ha provato. L’azienda che protegge il 20% di Internet dal traffico malevolo ha deciso di bloccare i crawler di Google dedicati al training di Gemini, il modello di AI che il gigante di Mountain View piazza ovunque: nelle risposte di ricerca, nei chatbot, nei telefoni, persino nei frigoriferi se gli lasci abbastanza API. Risultato?

Google ha semplicemente ignorato il blocco. E no, non parliamo di un bug o di una svista tecnica. Parliamo della versione moderna del “grazie per l’accesso, ora puoi anche sparire”.Il problema non è solo tecnico. È strutturale. Google è giudice, giuria e carnefice dell’ecosistema web. Possiede l’infrastruttura (Googlebot, Chrome, Android), definisce le regole (algoritmi di ranking, penalizzazioni, indicizzazione), ma adesso vuole anche diventare autore e distributore e i contenuti glieli dai tu.

Non importa se hai investito anni nella tua content strategy, se hai costruito autorità editoriale, se hai speso milioni in campagne SEO e nel raffinamento semantico delle tue pagine. Google non ti manda più traffico, prende direttamente le risposte dai tuoi testi e le incolla nella sua AI. Ti lascia la briciola. Un link, forse. Nascosto. A volte neanche quello.

È il sogno di ogni monopolista: appropriarsi del valore creato dagli altri, automatizzarlo, e reinserirlo nel mercato con la propria etichetta. Senza costi, senza permessi, senza dover rispondere a nessuno. L’intelligenza artificiale non è qui per “democratizzare l’accesso al sapere”. È qui per trasformare il sapere in commodity, e il tuo sito in un cadavere digitale visitato da fantasmi automatici che succhiano contenuti senza pietà.E non serve aggiornare il tuo robots.txt. Google ha separato i suoi crawler: quelli per l’indicizzazione classica, quelli per il training dei modelli, quelli per l’analisi semantica. Alcuni li dichiara, altri no. e comunque, anche se provi a bloccarli, chi garantisce che Gemini non stia imparando dai risultati già archiviati?

O dalle anteprime mostrate nelle SERP? O, peggio ancora, da altri modelli AI che sono stati già addestrati sui tuoi contenuti e ora si contaminano a vicenda in un loop di pseudo-originalità autoreferenziale? La verità è che una volta che il tuo contenuto è entrato nel motore, è come se fosse finito in un buco nero: non puoi più riprenderlo.

Siamo di fronte a una riscrittura silenziosa del contratto sociale del web. Fino a ieri, producevi contenuti e in cambio ricevevi attenzione, visibilità, traffico. Oggi produci contenuti, e in cambio ricevi… niente. O peggio: ricevi un clone delle tue parole, riscritto da una macchina, servito sopra il tuo stesso pubblico. È come se un algoritmo ti stesse facendo concorrenza sleale con il tuo stesso materiale. Ma con più velocità, più reach e paradossalmente più autorevolezza, perché la gente si fida di Google, non di te.E non pensare che basti “disiscriverti” dal gioco. Non puoi. Perché se tu chiudi, un altro competitor apre, e Google troverà comunque una fonte per replicare ciò che dicevi. In questo scenario, l’unica via d’uscita è diventare più originale dell’originale, più umano dell’umano, più imprevedibile del predicibile. Una corsa armata contro l’omologazione algoritmica. Ma a che prezzo?

Per ogni esperto che riesce a sfuggire al sistema, ce ne sono cento che vengono inghiottiti dalla standardizzazione del contenuto sintetico.La domanda reale non è “perché Google può farlo”, ma “chi glielo impedisce”.

La risposta, al momento, è nessuno. La legislazione sul copyright non è pronta per affrontare il tema dell’addestramento AI. Le piattaforme hanno tutto l’interesse a mantenere opaca la questione. Gli utenti, dal canto loro, non vedono differenze: l’importante è avere una risposta. Poco importa se proviene da un sito, da una redazione o da un transformer da 1.8 trilioni di parametri.E così, chi investe in contenuti si trova in una spirale perversa: più crei valore, più rendi l’AI di qualcun altro più potente. Stai nutrendo il tuo predatore. Ma non puoi smettere, perché se lo fai, sparisci del tutto.

Benvenuto nel capitalismo cognitivo, versione 4.0: tu pensi, Google guadagna e se provi a proteggere le tue idee, vieni tacciato di ostilità verso l’innovazione.Nel frattempo, ogni giorno nascono nuove piattaforme di scraping, nuovi modelli, nuove startup che si appropriano dei contenuti altrui con la stessa disinvoltura con cui si cita una GIF e ogni tentativo di difesa tecnica è inutile: i crawler possono mascherarsi, fingere di essere browser, aggirare i firewall. La vera guerra si combatte sull’infrastruttura, non sul contenuto.

Quello che sta accadendo è l’equivalente digitale della privatizzazione delle fonti d’acqua. Il web, un tempo territorio condiviso, sta diventando una riserva per modelli proprietari, che bevono gratis e rivendono l’acqua in bottiglie con etichetta “AI-powered”.

Tu, che scavavi i pozzi, ti ritrovi a comprare a caro prezzo quello che avevi già.Forse è tempo di ripensare tutto. Forse è ora di riscrivere i protocolli di base, di immaginare un web in cui l’accesso ai contenuti sia tracciabile, licenziabile, contrattualizzato per l’addestramento AI. Ma questo richiede una volontà politica che non si intravede, e un coraggio imprenditoriale che pochi hanno il lusso di esercitare. Per ora, resta solo la consapevolezza amara: chi domina l’accesso, domina il contenuto e chi domina il contenuto, vince la guerra dell’attenzione.Google non ti sta solo leggendo.

Ti sta riscrivendo. E questa, più che una rivoluzione tecnologica, è una damnatio memoriae in formato JSON.