Non capita spesso che uno spazio di archeologia industriale trasformato in sala performance riesca a mettere in discussione la percezione stessa della realtà. Ma ieri sera, alla Fondazione Pastificio CERERE, è successo. Franz Rosati, artista visivo e compositore elettroacustico, ci ha portato altrove. Non altrove nel senso naïf dell’arte immersiva per turisti digitali, ma in un luogo difficile da nominare, fatto di vettori, texture e latenza. Più che un’esibizione, una dissezione algoritmica del paesaggio. Se uno volesse trovare una parola per quello che abbiamo visto, dovrebbe forse inventarla.

Rosati non suona e basta. Rosati orchestra macchine. Non macchine come strumenti, ma macchine come entità dotate di linguaggio, memoria e volontà grafica. Il suo setup è chirurgicamente distribuito tra Ableton Live, Max/MSP, TouchDesigner e Unreal Engine. Un’architettura modulare che fa impallidire l’idea stessa di “live performance”, perché qui il tempo reale è una simulazione guidata da dati, da strutture sintetiche e da pulsazioni nervose che sembrano provenire direttamente da una foresta neurale, non da un musicista.

A vederlo sul palco, sommerso da controller, patch e layer di interfacce, viene il sospetto che il vero protagonista non sia l’uomo ma l’ecosistema che ha costruito. Eppure Franz è lì, visibile e insieme invisibile, perché lascia che il linguaggio parli da sé. I visual, generati in TouchDesigner, si muovono come ecosistemi a sé stanti: paesaggi glitchati, strutture che implodono, tessiture liquide che si dissolvono nel vuoto come sogni di un GAN drogato. A tratti sembrano cartografie post-umane, in altri momenti anatomie invertite di paesaggi interiori. Una topografia di ciò che non è mai stato visto, ma che si presenta come familiare.

Il suono? Difficile definirlo. È rumore organizzato, drone materico, sinusoidi deformate, onde quadre che esplodono in sub bass da far tremare i muri e la psiche. C’è techno destrutturata, c’è ambient collassato su sé stesso, c’è una scultura sonora che dialoga in tempo reale con le immagini. L’uso del multicanale è chirurgico: i bassi arrivano come terremoti localizzati, i medi come rasoi a mezz’aria, gli alti come incisioni precise nella corteccia uditiva.

Franz Rosati non crea esperienze visive: crea sistemi dinamici, strutture auto-generative che esistono nel tempo che gli è concesso. E quando l’ultima sinusoide si dissolve, resta il vuoto. Non un silenzio normale, ma un vuoto carico di dati, come se qualcosa si fosse spento nel cervello. È il tipo di performance che costringe il pubblico a rimanere in piedi per dieci secondi dopo la fine, incerto su cosa fare del proprio corpo, della propria percezione, del proprio senso del tempo.

Dietro le quinte (informale, fuori dallo spazio, tra cavi e chiacchiere con altri spettatori a metà tra il nerd e l’illuminato) qualcuno dice che Rosati “usa il codice come un pittore usa il colore”. Una banalità poetica, certo, ma c’è del vero. La sua opera non è una dimostrazione di forza computazionale, ma una dichiarazione di poetica: che l’informazione può essere sensibile, che i dati possono avere una voce, che l’algoritmo può essere lirico.

Ci siamo chiesti che hardware usa, perché è impossibile restare indifferenti al dettaglio maniacale di ogni frammento visivo. E la risposta, purtroppo per chi cerca scorciatoie, è scomoda: la potenza di calcolo non basta. Serve una grammatica. Rosati costruisce i suoi ambienti con workstation su misura, GPU performanti, interfacce audio multicanale e una rete di comunicazione tra software che non si improvvisa. Ma soprattutto, usa il tempo: quello necessario a generare coerenza tra i layer, a far sì che l’audio modelli il video come un vento modella la sabbia.

Sì, certo, ci sono i tool: Max/MSP per costruire gli strumenti, Ableton Live per governare la struttura temporale, TouchDesigner per la generazione visiva, Unreal Engine per le sequenze più cinematografiche. Ma non è il tool, è l’uso che ne fa. È l’intersezione tra moduli. È la capacità di creare ponti sinaptici tra linguaggi apparentemente incompatibili. È il rifiuto dell’interfaccia come spettacolo, a favore della sostanza come struttura percettiva.

E poi c’è la scelta degli spazi. Pastificio Cecere è un contenitore dissonante, con quella sua brutalità da archeologia produttiva e la dolcezza acustica dei volumi alti. Un luogo che amplifica le tensioni tra digitale e fisico. Un posto dove il glitch sembra nato da un’infiltrazione d’acqua e il rumore ha lo stesso sapore del cemento che cade a pezzi. Nessun luogo “instagrammabile”, nessuna estetica da screensaver generativo: solo frizione, rumore, e una bellezza che non chiede il permesso.

Non so quanti tra i presenti abbiano davvero capito cosa è successo ieri sera. Ma non importa. Perché non era uno spettacolo da comprendere, era una struttura da attraversare. Un’esperienza a metà tra il sogno computazionale e la chirurgia sensoriale. Un lavoro che, se ti prende, ti resta dentro come una riga di codice infetta. Una funzione non dichiarata che continua a girarti in testa anche quando torni a casa.

Franz Rosati non fa arte digitale. Fa qualcosa che ancora non abbiamo imparato a classificare. Forse è questo il suo più grande merito: costruire paesaggi per una mente post-umana, con la grammatica instabile del futuro. E farlo in tempo reale, mentre tutto brucia.

Grazie a RE:HUMANISM per aver creato l’occasione.