Benvenuti nel teatro delle illusioni finanziarie, dove le startup tecnologiche italiane si affacciano con l’entusiasmo ingenuo dei fondatori che confondono un palco con una piazza. L’EGM acronimo nobilmente ambiguo di Euronext Growth Milan si presenta come il mercato alternativo per le PMI innovative, una promessa di capitali, visibilità, scalabilità. In pratica: il posto dove una startup può finalmente smettere di elemosinare seed round da venture in modalità oracolo e accedere, si dice, al grande banchetto del capitale pubblico. Ma la realtà è più crudele, più sottile, più pericolosa: EGM non è un mercato. È una recita. Un catalogo interattivo con scarsa interazione e nessun pubblico pagante.

La colpa? Un’architettura che confonde la quotazione con la liquidità, la visibilità con la fiducia, la scalabilità del capitale con l’inerzia del flottante. Una startup tech che entra su EGM spera in nuovi capitali, ma si ritrova spesso in un acquario finanziario privo di correnti. Il flottante “libero” è in realtà congelato in mani inattive, spesso poco alfabetizzate sulla tecnologia e sulla sua logica di crescita esponenziale. Gli investitori che popolano (si fa per dire) EGM ragionano come rentier d’altri tempi, con la stessa operatività emotiva della nonna con i buoni postali: entrano, custodiscono, e aspettano. E aspettano. E aspettano. Come se una startup deep-tech si comportasse come l’Eni.

Quello che manca è l’attitudine. Quella fame da mercato vero, dove la contrattazione è costante, l’informazione è fluida, e ogni investitore sa che il valore si costruisce anche con la partecipazione. Su EGM, invece, lo scambio è episodico, non strutturale. I titoli si muovono solo in presenza di eventi esogeni, spesso traumatici: fusioni, aumenti di capitale mal comunicati, crisi di governance. Per il resto, è un deserto. Ma attenzione, non un deserto africano dove almeno ci sono le tempeste di sabbia. Un deserto aziendale, asettico, normato, finto. Dove nessuno compra perché nessuno vende, e nessuno vende perché nessuno compra.

Il problema è sistemico. Le imprese tech si presentano male. O meglio: si presentano come se fossero su un palco di pitching, non su un mercato. Parlano di visioni, TAM, pipeline, marginalità futura, MAU, LTV/CAC. E va bene, certo. Ma non traducono mai questi elementi in narrativa finanziaria attivabile. Non stimolano il mercato. Non alimentano il “perché adesso”, quella leva fondamentale che trasforma un titolo in asset dinamico. Le IR sono spesso un copia-incolla del pitch deck originale, con qualche parola in più per sembrare “da grandi”. Nessuno si occupa di costruire momentum, di lavorare sull’engagement finanziario, di generare una cultura di movimento intorno al titolo.

Ma non è solo colpa delle startup. Gli investitori istituzionali italiani, con pochissime eccezioni, sembrano incapaci di interpretare una startup come un’entità in trasformazione continua. Preferiscono l’illusione della stabilità, quando dovrebbero cercare il valore nel cambiamento. In America, anni fa, un gestore mi raccontava che il suo fondo aveva una policy di refining del 10% al mese. Significa che ogni trenta giorni si ribilanciavano le posizioni per stimolare la liquidità e testare il mercato. Su EGM, il concetto stesso di refining fa ridere. Chi entra in un titolo, lo dimentica. Aspetta l’exit, l’OPA, il miracolo. Così facendo, soffoca il mercato secondario e avvelena l’ecosistema.

Il vero peccato capitale è l’effetto domino che questo genera. Una startup su EGM che non vede movimenti perde rapidamente la narrazione verso i nuovi investitori. Senza volumi, non ci sono prezzi credibili. Senza prezzi, non c’è percezione di valore. Senza percezione, non ci sono nuovi capitali. E la spirale diventa discendente. Gli investitori venture iniziano a evitare l’IPO su EGM come strada di exit, perché non la considerano più percorribile. I founder, intanto, sono intrappolati in una borsa che promette ma non mantiene, come certi partner industriali a cui piace “parlare di sinergie”.

Il paradosso è che l’Italia avrebbe tutto: un tessuto straordinario di startup brillanti, un know-how tecnico distribuito, una rete di acceleratori, e una fame di capitale che dovrebbe incendiare il secondario. Ma ciò che manca è la cultura del rischio moderno, del capitale attivo, della partecipazione dinamica. L’EGM, nella sua configurazione attuale, è l’antitesi dell’ecosistema tech. È statico dove servirebbe flessibilità. È frammentato dove servirebbe densità. È normato dove servirebbe coraggio.

C’è un altro punto scomodo, che nessuno ama toccare: la qualità media degli investitori che gravitano su EGM è inadeguata a comprendere la traiettoria non-lineare delle aziende tech. Non capiscono l’importanza della burn rate gestita, dell’effetto rete, del time-to-market. Si aspettano dividendi, non disruption. Guardano i multipli di EBITDA su aziende che non dovrebbero avere EBITDA per definizione. È come valutare un razzo sulla base del consumo di carburante al minuto. Ma un razzo non si giudica così. Si giudica su dove ti porta.

Allora che si fa? Si aspetta che “qualcun altro” riformi il mercato? Che Borsa Italiana renda tutto più liquido? Che i fondi europei facciano da market maker? No. Si fa qualcosa subito, dall’interno. Le startup devono smetterla di trattare EGM come un traguardo e cominciare a vederlo per quello che è: un mezzo. Devono attivarsi per generare domanda sul titolo, costruire community finanziarie, usare la comunicazione per creare pressione positiva. Devono lavorare con advisor veri, non PR camuffati da IR, per costruire meccanismi di rotazione degli investitori. Devono selezionare partner e azionisti che capiscono la logica dell’innovazione, non quelli che vogliono solo sentirsi “soci di una tech”.

Gli investitori? Devono cambiare pelle. In fretta. Devono abbandonare l’approccio passivo e iniziare a costruire posizioni che abbiano un ruolo. Devono accettare che il rischio è l’unica via per il rendimento reale. Devono capire che tenere un titolo fermo è un atto di sabotaggio, non di fedeltà. Devono sporcarsi le mani con le metriche giuste, con le domande scomode, con il dialogo vero. Devono smettere di aspettare la liquidità e cominciare a crearla.

EGM può ancora essere qualcosa. Ma non sarà mai il Nasdaq italiano se continua a essere gestito come una versione provinciale di un libro mastro. Le startup tech italiane non possono permettersi di morire in un mercato immobile. Hanno bisogno di velocità, di attrito, di rumore. E se il mercato non lo offre, devono generarlo. Altrimenti finiranno per diventare come i buoni postali della nonna: sicuri, immobili, e perfettamente inutili.