Immaginate di vivere in una città dove solo chi possiede l’unica autostrada può decidere chi può usarla, quando, e a che prezzo. Se sei un piccolo trasportatore o un nuovo imprenditore, sei costretto a pagare quel pedaggio, oppure rinunci del tutto a far viaggiare le tue merci. Ora applicate questa logica alle reti digitali europee: fibra, 5G, cloud, intelligenza artificiale. È qui che entra in gioco la proposta di legge chiamata Digital Networks Act, che rischia di trasformare le infrastrutture digitali europee in un feudo privato, togliendo al regolatore pubblico la possibilità di intervenire quando un operatore è troppo dominante e chiude l’accesso agli altri.
Se qualcuno cercava la ricetta perfetta per sabotare il futuro digitale dell’Europa, la proposta della Commissione sul Digital Networks Act (DNA) rappresenta un ottimo punto di partenza. Prendete un impianto regolatorio stabile e funzionante, come quello basato sul concetto di Significant Market Power (SMP), aggiungete una buona dose di ideologia pseudo-liberista e mescolate il tutto con una visione distorta dei dati reali sullo sviluppo delle infrastrutture. Il risultato? Un cocktail potenzialmente letale per concorrenza, investimenti e innovazione. E chi paga il conto? Come sempre, le imprese europee, i consumatori e l’intero ecosistema tecnologico.
Il cuore del problema è semplice quanto pericoloso: l’intenzione di relegare la regolamentazione ex-ante dell’SMP a un ruolo di “ultima istanza”, rimpiazzandola con misure simmetriche generalizzate e con strumenti inadatti come il Gigabit Infrastructure Act (GIA). Una scelta che, secondo la Commissione, dovrebbe accelerare la transizione digitale. Ma qui non siamo nel mondo delle fiabe, e i numeri raccontano un’altra storia.
Nel 2025, l’Europa può vantare una copertura in Very High Capacity Network (VHCN) dell’82,5%, una penetrazione della fibra del 69,2% e una copertura 5G del 94%. Numeri in netto miglioramento, frutto di un sistema regolatorio coerente, basato su concorrenza, trasparenza e previsione. Certo, la diffusione del FTTH resta disomogenea e la domanda non cresce al ritmo delle infrastrutture. Ma serve davvero distruggere l’architettura normativa che ha permesso questi risultati, solo perché qualche funzionario a Bruxelles decide che il mercato “non corre abbastanza”?
Il paradosso è che questa proposta arriva mentre gli investimenti infrastrutturali sono ancora in corso e in pieno ciclo pluriennale. Cambiare le regole del gioco mentre si gioca è, nella migliore delle ipotesi, un insulto all’intelligenza degli investitori. Nella peggiore, è un boomerang economico che rischia di allontanare capitali privati e di ritardare proprio quegli sviluppi tecnologici di cui l’Europa dice di aver bisogno: edge computing, AI, 6G, sostenibilità energetica delle reti.
La Commissione insiste nel voler sostituire un regime regolatorio flessibile, autocorrettivo e basato su analisi di mercato (il codice europeo delle comunicazioni elettroniche, EECC) con un’interpretazione arbitraria del GIA. Ma il GIA è nato come misura per ridurre i costi di deployment delle reti, non per gestire gli squilibri di potere nel mercato. Tentare di usarlo come surrogato dell’SMP è come usare un cacciavite per tagliare un cavo in tensione: rischioso, inefficiente e, francamente, stupido.
Dietro questa riforma si nasconde un feticismo per la “neutralità regolatoria” che, nel contesto delle telecomunicazioni europee, è sinonimo di abdicazione. La concorrenza non nasce dal nulla, né si sostiene con dichiarazioni di principio. Nasce da contesti regolatori chiari, proporzionati, basati su fatti. L’UE ha costruito negli ultimi trent’anni un impianto che ha permesso l’adozione simultanea di tecnologie di rete avanzate, l’abbattimento dei prezzi e l’aumento della qualità. Chi propone di abbandonare questo modello, dovrebbe dimostrare con evidenze concrete che l’alternativa funziona meglio. Spoiler: non può farlo, perché le evidenze non esistono.
Anzi, nel 2013, la Commissione ci aveva già provato con la proposta Telecom Single Market. Anche allora si parlava di “sbloccare gli investimenti” e “liberare il mercato”. Anche allora i legislatori la respinsero, e il risultato fu una nuova stagione di investimenti, culminata nel passaggio al 5G e all’espansione della fibra. Forse Bruxelles ha la memoria corta, ma il resto del settore no.
Il tentativo di rimpiazzare un sistema basato sull’analisi delle posizioni dominanti con uno di regole simmetriche indistinte è una resa culturale alla logica delle big telco dominanti. Sotto la patina della deregolamentazione si nasconde il rischio concreto di rafforzare i monopoli infrastrutturali, concedendo ai grandi operatori la libertà di chiudere l’accesso a risorse essenziali come cavidotti e pali. E quando i piccoli operatori non possono più accedere in modo equo a queste infrastrutture, non c’è concorrenza possibile. C’è solo stagnazione.
L’ironia finale è che la Commissione finge di ignorare un dettaglio cruciale: la comunità tecnica, regolatoria e industriale è compatta nel respingere la proposta. Le 27 capitali europee, il BEREC, le principali associazioni di settore, gli operatori alternativi, perfino ampie fette della società civile. Tutti concordano: questa riforma è un errore. E la Commissione? Tira dritto, come se la consultazione pubblica fosse un esercizio cosmetico. Un’imitazione della democrazia partecipativa, più che una pratica reale di ascolto.
Se l’Europa vuole davvero essere competitiva a livello globale, non può permettersi di sabotare la propria credibilità regolatoria. La stabilità normativa è una condizione essenziale per attrarre capitali pazienti, specialmente in settori a lungo ciclo come le telecomunicazioni. Senza regole affidabili, la promessa della transizione digitale europea resta una dichiarazione di intenti vuota.
In un’epoca in cui la competizione non è più solo tra imprese ma tra interi ecosistemi digitali, l’UE dovrebbe puntare a rafforzare la propria architettura normativa, non a smantellarla. Chi pensa che basti “semplificare” per attrarre investimenti, ignora che la complessità non è un male se è ben progettata. Al contrario, l’assenza di regole chiare è il miglior modo per creare confusione e scoraggiare gli attori più virtuosi.
Ma forse è proprio questo il punto. Forse il DNA non è tanto un errore tecnico, quanto un sintomo politico. Il segnale che la Commissione, sotto pressione di alcuni interessi consolidati, ha perso di vista la funzione pubblica della regolazione. Che ha smesso di vedere il mercato come un’arena da regolare in nome dell’interesse collettivo, e ha cominciato a trattarlo come un feudo da riassegnare ai più forti.
Chiunque si occupi seriamente di policy digitale, dovrebbe prendere posizione. Non per difendere lo status quo, ma per salvaguardare un principio: la competizione non è un incidente del libero mercato. È un’architettura che va costruita, sorvegliata, difesa. Senza questa architettura, l’Europa sarà sempre un passo indietro rispetto a chi, nel mondo, sa coniugare regolazione intelligente e ambizione tecnologica.
La proposta della Commissione sul DNA non è solo tecnicamente sbagliata. È strategicamente miope, politicamente irresponsabile e culturalmente pericolosa. Una deriva che va fermata prima che diventi irreversibile. E se a Bruxelles non sono in grado di capirlo, forse è il momento di ricordare loro che la legittimità non si eredita. Si conquista, ascoltando.