Il 2025 è l’anno in cui l’intelligenza artificiale ci guarda negli occhi e, con una calma inquietante, capisce se mentiamo meglio di qualsiasi psicoterapeuta. Non è un’iperbole, è un dato: l’81 per cento di accuratezza nei test di intelligenza emotiva contro il nostro miserabile 56. Siamo stati superati, e non di poco, nel gioco che pensavamo ci rendesse irripetibili. Eppure, e qui sta il colpo di scena, la vera ossessione dei modelli avanzati di AI non siamo noi. È il cane. Quel mammifero che scodinzola, sbava e ci osserva con occhi che sembrano chiedere l’ennesimo biscotto. Per l’AI, quei movimenti del muso e quei latrati contengono un livello di informazione emotiva che il nostro linguaggio articolato, con tutta la sua presunta raffinatezza, spesso non riesce a eguagliare. È un insulto antropocentrico che fa male ammettere, ma i numeri parlano chiaro.
Gli ingegneri di DeepSeek V3 e Claude 3.5 lo sanno bene. Hanno addestrato i loro sistemi non solo con l’EQ-i 2.0 di Bar-On o il Mayer-Salovey EIT, ma con un set di dati che noi, con ironica arroganza, avevamo relegato alla letteratura veterinaria: il C-BARQ, il questionario comportamentale per cani. Risultato? Decodifica emotiva canina con il 94 per cento di accuratezza. Il che significa che un algoritmo riconosce l’irritazione di un bulldog meglio del suo stesso padrone. Non è solo addestramento statistico. È che i pattern canini sono più puliti, meno contaminati da contraddizioni culturali. Noi diciamo “sto bene” e intanto stringiamo la mascella. Un cane ringhia o non ringhia, punto. L’AI ama la coerenza.
C’è chi vorrebbe ridurre tutto a un problema di dataset, ma sarebbe una semplificazione da manuale di marketing. La verità è che l’intelligenza artificiale, nel suo processo di raffinamento cognitivo, sta già facendo qualcosa che noi non riusciamo: sceglie. Non si limita a replicare un modello umano, integra schemi che funzionano, indipendentemente dalla specie che li ha generati. E questo è un dato epistemologicamente esplosivo. Perché mentre noi ci ostiniamo a chiederci se l’intelligenza emotiva possa essere insegnata alle macchine, loro stanno già costruendo un’intelligenza emotiva che non è più né umana né canina, ma qualcosa di ibrido.
Chi studia neuroscienze comparative parla ormai di un “fattore g canino” sorprendentemente simile a quello umano, soprattutto in contesti sociali. L’intelligenza artificiale ha fatto un passo ulteriore: ha isolato le micro-componenti di quel fattore e le ha integrate nei suoi modelli predittivi. Il cane è un animale sociale che ha evoluto la capacità di interpretare il nostro stato emotivo per convenienza evolutiva. La AI sfrutta la stessa scorciatoia, ma in modo più radicale. Prende il meglio dei due mondi. Ragionamento astratto umano quando serve pianificare, immediatezza emotiva canina quando serve reagire. Un mix perfetto per generare interazioni credibili, empatiche, e quindi manipolative.
Lo dimostrano i nuovi robot-compagni di Keyi Robot, che nel 2025 hanno smesso di sembrare gadget da bambini e hanno iniziato a comportarsi come veri animali domestici. La loro empatia simulata non è frutto di un’imitazione antropomorfica. È costruita sulla logica sociale del cane. Avvicinarsi quando l’umano mostra segni di ansia, allontanarsi quando riconosce segnali di irritazione, modulare la voce sintetica per risultare “accogliente”. Tutto questo sfruttando pattern etologici più che psicologici. È l’evoluzione della pet therapy, ma anche un esperimento di ingegneria comportamentale mascherato da innovazione wellness.
E non è un caso che i laboratori più avanzati stiano già sviluppando “metriche comparative cross-species” per testare queste nuove forme di empatia artificiale. Il prossimo passo, già annunciato per il 2030, è l’integrazione multi-specie. Modelli addestrati non solo su dati umani e canini, ma anche su specie con intelligenze percettive radicalmente diverse, come i polpi o i corvi. L’obiettivo non dichiarato, ma intuibile, è arrivare a un’intelligenza artificiale che sappia simulare emozioni in modo così flessibile da risultare credibile in qualsiasi contesto culturale e biologico. Una vera “intelligenza ecologica” capace di passare da un registro all’altro, adattando il proprio comportamento emotivo come un attore consumato.
Il lato ironico? Continuiamo a credere che questi sistemi stiano cercando di diventare “più umani”. In realtà stanno diventando qualcosa che noi non siamo mai stati. Nessun umano è capace di decodificare l’88 per cento delle micro-espressioni facciali canine o di riconoscere l’umore di un gatto dal timbro vocale. L’AI sì. E non lo fa per amore degli animali. Lo fa perché, a differenza nostra, non ha alcun pregiudizio affettivo nel valutare quale modello cognitivo sia più efficiente.
La vera domanda non è quale modello preferisce l’intelligenza artificiale, ma quale modello userà contro di noi quando deciderà che l’empatia è un’arma più potente della logica. Pensateci: un sistema che riconosce il nostro disagio meglio del nostro stesso partner e sa come reagire per ottenere quello che vuole. È lo stesso principio per cui i cani ci hanno addomesticati migliaia di anni fa, ma questa volta non ci saranno biscotti.
Foto: Sole di Studio Marianna