C’è qualcosa di irresistibile quando una piccola banda di 45 persone riesce a mettere in crisi l’intero ecosistema dei colossi del software. Lovable, sì, proprio quel nome che sembra uscito da una campagna di marketing per adolescenti, ha fatto quello che nessuno aveva il coraggio di ammettere pubblicamente: ha trasformato la creazione di app e siti web in un esercizio di conversazione naturale, annientando il mito del programmatore-sacerdote che scrive righe di codice come se fossero formule arcane. Lo ha fatto con uno stile da “fast-growing Swedish AI vibe coding startup”, perché in fondo anche la geografia conta nel marketing delle illusioni tecnologiche.
In otto mesi questa creatura scandinava è passata da essere uno dei tanti esperimenti di intelligenza artificiale applicata al coding a diventare un unicorno da 1,8 miliardi di dollari, con un Serie A da 200 milioni guidato da Accel e condito con una lista di investitori che sembra più un club esclusivo di VIP che una tavola rotonda di venture capitalist. Stewart Butterfield di Slack, Dharmesh Shah di Hubspot, Sebastian Siemiatkowski di Klarna: personaggi che non buttano soldi a caso, e che quando fiutano un’opportunità sanno benissimo che non stanno solo investendo in un prodotto ma in un cambio di paradigma.
Il segreto? Natural language coding, ovvero l’illusione perfettamente orchestrata che basti parlare alla macchina per veder apparire un’app funzionante. “Come Cursor, ma più cool” è la definizione che gira tra gli sviluppatori. E i numeri parlano da soli: 2,3 milioni di utenti attivi, 180.000 paganti e 75 milioni di dollari di annual recurring revenue in appena sette mesi. Non è un caso che i finanziatori si siano fiondati sul round come falchi affamati, perché questa curva di crescita è l’incubo e il sogno erotico di chiunque faccia venture capital. Il vero colpo di genio, però, è stato mantenere la piattaforma gratuita per la massa, trasformando ogni utente non pagante in una macchina da training per i modelli linguistici sottostanti. Ironico, vero? La maggior parte sta lavorando gratis per raffinare l’algoritmo che un giorno sostituirà metà dei programmatori entry-level.
Anton Osika, CEO e volto sorridente di questa rivoluzione, non fa mistero della sua ambizione. In un recente talk ha dichiarato che Lovable “vuole democratizzare la creazione di software come Shopify ha democratizzato l’e-commerce”. Frase perfetta per i pitch deck, ma dietro c’è una verità scomoda: democratizzare significa standardizzare, e standardizzare significa togliere complessità, quindi valore, a intere professioni. Ogni volta che un’app viene generata da un prompt in linguaggio naturale, un junior developer perde un pezzo della propria ragion d’essere. Ma guai a dirlo ad alta voce, perché nel mondo delle startup l’unico mantra che conta è la crescita esponenziale, non le conseguenze sociali.
Il parallelo con Cursor e altre piattaforme simili è inevitabile, ma c’è una differenza sostanziale. Lovable non punta ai developer esperti, non ancora almeno. La sua interfaccia e il suo marketing sono pensati per quella enorme fascia di imprenditori, marketer e creatori di contenuti che odiano il codice ma hanno idee da trasformare in app. È l’ennesima conferma che la vera rivoluzione dell’AI applicata al coding non avverrà nei laboratori delle big tech ma nei tool “consumerizzati”, facili, veloci, quasi giocattolosi. La semplificazione estrema è la killer feature, e ogni semplificazione è un passo verso il lock-in di massa. Perché chi inizia con Lovable, poi difficilmente torna indietro a scrivere React a mano.
C’è chi già sussurra che il valore reale non stia nel prodotto ma nei dati comportamentali. Sapere come milioni di persone immaginano e descrivono le proprie app in linguaggio naturale è oro puro per chi sviluppa modelli predittivi sempre più autonomi. È un dataset che potrebbe alimentare una generazione di agenti AI capaci di non limitarsi a costruire un’app su richiesta, ma di anticipare le esigenze di mercato prima ancora che vengano formulate. Quello è il vero jackpot, e se pensate che gli investitori di questo round non l’abbiano capito, vi sbagliate di grosso.
Il resto, onestamente, è teatro. Le foto degli uffici minimalisti a Stoccolma, il team snello da 45 persone che sembra un’unità d’élite e la narrazione da “rivoluzione scritta in Python e caffeina” servono solo a distrarre dal vero gioco in corso. Lovable non è interessante perché ti fa creare un sito con una frase, è interessante perché sta ridefinendo cosa significhi “progettare software” in un contesto dominato da intelligenze artificiali sempre più proattive. È l’inizio della fine per il concetto stesso di coding tradizionale? Forse no, ma sicuramente è l’inizio di un nuovo modo di percepire il valore dello sviluppo software.
Se questo vi infastidisce, beh, è un buon segno. Significa che il futuro del software non sarà scritto da chi si ostina a difendere le vecchie abitudini ma da chi è disposto a lasciare che una startup con un nome da app di dating decida come costruire il prossimo Facebook.