Il botto arriva oggi, 18 luglio 2025: Meta, con il suo diplomatico ma tagliente Chief Global Affairs Officer, Joel Kaplan, annuncia che “l’Europa sta imboccando la strada sbagliata nell’IA” e rifiuta di firmare il Code of Practice per AI general‑purpose voluto dall’UE, un framework volontario pensato come ponte verso il compliance all’AI Act . Una mossa che stride con la retorica di “responsabilità e trasparenza” tanto sbandierata anche dalla stessa commissione europea.

La dichiarazione è piuttosto netta: il Code introduce “insicurezze legali” e richieste che superano di gran lunga quanto previsto dall’AI Act . In soldoni, Meta afferma che queste maglie regolamentari da “bilancio di legge” minacciano di soffocare lo sviluppo e l’adozione di modelli AI d’avanguardia in Europa, penalizzando aziende europee pronte a costruirci sopra il proprio business.

Già nel passato Meta aveva alzato la voce contro il GDPR, il Digital Services Act e il Digital Markets Act. Oggi il nemico è un altro: l’AI Act. Quel che suona come un deja vu di posture anti-Bruxelles rientra in una strategia precisa. In un momento drammatico e quasi teatrale, Kaplan cita un manifesto firmato da 44 big europei – da Bosch a Siemens, da SAP ad Airbus, passando per BNP Paribas – che chiedono a gran voce un “Stop the Clock” sull’AI Act. Se Meta e simili da una parte sostengono le ragioni di questi concorrenti, dall’altra lanciano un chiaro messaggio: noi siamo con loro, e se serve eccepiremo su tutto.

In parallelo, la Commissione ha pubblicato questa mattina delle linee guida per integrare l’AI Act, che entrerà in vigore il 2 agosto 2025 per modelli con rischio sistemico. L’obiettivo dichiarato è facilitare la compliance con standard di trasparenza, responsabilità, cybersecurity e reporting degli incidenti – pena multe fino a 35 milioni o il 7 % del fatturato globale.

A ben vedere, però, il Code of Practice è “volontario”, non obbligatorio. E qui sta tutto il gioco: firmare o meno vuole dire abbracciare una “via rapida” verso una sorta di immunità regolatoria, mentre chi rifiuterà sarà soggetto a controlli più stretti .

Dunque si profila uno scenario da Guerra Fredda dell’AI, in cui l’UE punta a consolidare uno standard globale – pensiamo ai €200 mld messi sul piatto per i chip e gli AI gigafactory e Meta, insieme a Google, OpenAI, Anthropic e Mistral, rispondono a colpi di lobby, post LinkedIn (come quello di Kaplan o dell’influencer Luiza Jarovsky che rilancia la provocazione) e dossier anti-regolatori.

Lo scontro rischia di degenerare. Meta, dapprima con il Code, ora probabile nuova palla di cannone con l’AI Act stesso, continua a trattare come se l’Europa fosse la solita filiera di burocrazia asfissiante da aggirare. Ma qui siamo oltre: è in gioco la sovranità normativa, la capacità europea di dettare regole ad alta responsabilità sul digitale. E Meta, dal canto suo, veste i panni della paladina dell’innovazione, contro una UE “retrograda”.

Resta da vedere se lo schieramento europeo resterà compatto: la Commissione ha ribadito senza esitazione che non intende fermarsi. Nel codicillo, si legge che trasparenza, sicurezza, copyright, tracciabilità e misure anticopia devono essere rispettate in un quadro chiaro entro fine anno: chi firma ne esce con un timbro di legal certainty, chi rifiuta sarà oggetto di ispezioni mirate.

Curiosità succosa: OpenAI ha già annunciato che firmerà, non appena il Code sarà disponibile . Un colpo di coda? Potrebbe consolidare ulteriormente il doppio binario EU: “noi firmiamo e restiamo, mentre voi altrove”. Potrebbe addirittura sorridere a PMI europee che puntano a seppellire le Big Tech nel contenzioso. Ma le lobby non dormono, e Bruxelles dovrà dimostrare di non essere vittima di ricatto regolatorio.

Il timing è impeccabile. Manca poco all’entrata in vigore del Code e dell’AI Act, ma l’Europa ha già tirato la stoccata con le linee guida per i provider “high capacity”: rischio sistemico, obblighi di test, trasparenza sui dataset di addestramento, divieto di contenuti piratati . Meta ha risposto colpo su colpo: “non firmiamo e non ci stiamo”. Potrebbe essere apertura di nuovi contenziosi legali, come Odissea tra GDPR, DSA, DMA e ora l’AI Act. Un mega‑match regolatorio.

In attesa di capire se si arriverà al contenzioso – e chi avrà la meglio sui tribunali europei – avanzano vite economiche e tecniche. Imprese, centri di ricerca e startup devono scegliere se allinearsi al Code per accelerare i propri progetti AI o prepararsi agli accertamenti. Meta promette “innovation first”, mentre l’Europa punta su “legale first”. La posta in gioco? Chi vincerà farà da modello globale. L’Europa punta a standardizzare la regolazione dei LLM; Meta potrebbe esportare fuori un ecosistema più light, più americano, più veloce.

Per chi sta nell’AI business, il consiglio subliminale è: possibilmente firmare, non ostinarsi. Meta l’ha già deciso, ma resta il gatto nero nei corridoi di Bruxelles. Un braccio di ferro che sa di déjà vu, ma che potrebbe essere il catalizzatore per accelerare la definizione di “AI responsabile”, con standard ombrello globali più definiti.

Ricapitolando con un piglio da CEO: Meta scommette sulla disgregazione europea spiegando la guerra come “pericolo per l’innovazione”. L’Europa risponde con fermezza da custode delle garanzie, insistendo che un po’ di burocrazia è meglio del caos regolatorio. Il terreno di scontro non è più solo politico: è strategico‑tecnologico, e stavolta in palio ci sono investimenti, mercato e infrastrutture. Una partita dove nessuno può permettersi passi falsi né comunicati tiepidi.

Preparate i popcorn: la guerra tra Big Tech e regolatori entra in una nuova fase, ancora più strategica. Io resto in prima linea, pronto a raccontarvi ogni azione, ogni sentenza, ogni passo falso o nuova strategia. Promesso.